I diritti animali nella filosofia antica

I diritti animali nella filosofia medievale

I diritti animali nella filosofia moderna

I diritti animali nella filosofia contemporanea

 

 

 

I diritti animali nella filosofia antica

 

Nel mondo antico il concetto di diritto comprendeva sfere molto esigue, dato che come sappiamo già nella popolazione umana grossi gruppi di quelle che oggi noi consideriamo a pieno titolo come "persone giuridiche" venivano escluse dalla maggior parte dei diritti civili e da quelli politici (basta pensare alle donne, agli schiavi, ai forestieri etc.). Per cui non deve sorprendere la poca considerazione, fatte rare eccezioni, che si aveva degli animali fra i filosofi classici.

I primi filosofi del mondo classico riconducevano ad un’origine comune il rapporto fra uomo e animale, i quali, proprio per questa comune origine nella natura, risultavano essere parenti. Anassimandro vede nell’intero universo una sorta di organismo, nel quale sia gli animali che i vegetali nascono per intervento della terra e dell’acqua. La convinzione di una parentela fra tutti gli esseri viventi è in lui così forte che lo porta a sostenere che gli uomini sono nati dai pesci. Proprio per questo spesso gli studiosi hanno visto in Anassimandro l’intuizione fondamentale dell’evoluzione e della mutazione incessante della realtà, compresi gli esseri viventi. L’idea che gli uomini, come tutti gli esseri viventi abbiano origine dagli elementi naturali è comune anche a filosofi come Democrito, Eraclito e Anassagora.

La concezione ciclica della natura e degli esseri viventi è presente anche in un filosofo più tardo come Platone. Tuttavia egli sviluppa una concezione dell’universo molto più complessa in cui tutti gli esseri viventi hanno un’anima, ma la loro esistenza in forma materiale è l’espressione di una punizione o di un premio per l’anima che è racchiusa nel loro corpo.
L’opera da cui meglio possiamo evincere ciò e quindi anche la sua concezione degli animali e della natura è Il Timeo.
Qui Platone inizia definendo il dualismo originario che sottende la realtà, la sua divisione in due sfere, quella dell’indivisibile ed eterna del pensiero e quella visibile della corporeità. La sfera del pensiero è primaria ed originaria. All’inizio le due sfere esistevano vicine nella matrice informe dell’essere visibile, lo “spazio” o “la nutrice” .
Tra le due sfere vi era il Demiurgo, l’artefice cosmico che forgia lo spazio prima negli elementi primari del fuoco, dell’aria, dell’acqua e della terra e poi gli dà la forma del corpo sferico del cosmo. Il Creatore forma poi l’anima del mondo e l’infonde nel corpo cosmico come suo principio di vita e di movimento. Procede poi a formare l’anima umana con i medesimi elementi dell’anima del mondo, solo che più diluiti. Egli divide questa miscela d’anima in parti uguali e la pone nelle stelle, dove riceve un’istruzione celeste sulla natura eterna della realtà. Una volta che le anime hanno ricevuto la loro infusione celestiale di verità si incarnano nei corpi maschili. Il loro compito è quello di dominare gli istinti disordinati che insorgono dal corpo. Se le anime riescono in questo compito, si libereranno del corpo ed alla morte torneranno alla loro stella “nativa”. Ma se non riesce ad ottenere questo dominio sul corpo e i suoi istinti, l’anima si reincarnerà in una donna. Se a questo stadio non desiste dal male, si reincarnerà in un “bruto” che somiglia alla natura del male in cui è caduto. Questo circolo di incarnazione continuerà finché l’anima sappia dominare il proprio corpo e ritorni al suo “primo e migliore stato”, cioè un maschio umano libero. Quando ogni colpa sarà espiata, cesserà anche il dolore della nascita, della vita e della morte. In questo modo ogni aspetto concreto della vita materiale, essere donne o uomini, schiavi o animali, trova una spiegazione precisa in relazione alle colpe commesse dalla propria anima nelle esistenze precedenti. Sempre nel Timeo Platone traccia una vera e propria genealogia che va dagli uomini agli animali, ed è interessante notare come, se gli uomini non si fossero allontanati dalla verità e non avessero contratto colpe, le donne e gli animali non esisterebbero affatto. Non sono dunque gli uomini a essere un’evoluzione dagli animali, così come siamo abituati a pensare noi in un’ottica evoluzionista, ma sono le donne e gli animali a derivare dagli uomini in seguito ad una loro degenerazione. Ad esempio gli uccelli sono nati inseguito alla trasformazione degli uomini che
“parlano delle cose celesti, ma nella loro semplicità credono che queste mediante la vista si possano dimostrare nel modo più sicuro”. (1)

Da questo possiamo dedurre che Platone pensa ad una realtà divisa in due tra la mente e il corpo. La mente è primaria, eterna e buona. Il corpo è secondario, derivativo e fonte del male. E la gerarchia della mente sul corpo viene da lui replicata nella gerarchia dell’uomo sulla donna, degli umani sugli animali. Viene anche replicata nella gerarchia di classe dei governanti sui lavoratori . Questo lo troviamo esplicitamente espresso nella Repubblica, dove la società giusta e ordinata corrisponde alla gerarchia dell’io bene ordinato che corrisponde alle tre caste sociali dei filosofi-governanti, dei guerrieri-guardiani e dei lavoratori manuali. Quindi in Platone la dominazione maschile, la gerarchia di classe e la condizione d’inferiorità degli animali fanno tutti parte dell’ordine sociale accettato. In questa concezione soltanto i maschi umani appartenenti alla classe dominante sono al vertice della gerarchia “dei corpi incarnati” e rispecchiano nella loro coscienza il più alto mondo delle idee eterne.
Con Aristotele la filosofia diviene sistema che si sforza di aderire al reale nella sua oggettività concreta. Nonostante l’assunto, che gli animali hanno in comune molte delle capacità psicologiche possedute dall’uomo , egli nega senza esitazione che abbiano la capacità di ragionare ed attribuisce agli animali solo un’anima sensitiva, mentre l’uomo è l’unico ad essere “un animale ragionevole”. Nel De Anima afferma che è vivente tutto ciò che possiede un’anima, ma questa può essere intesa in tre diverse accezioni: quella vegetativa, quella sensitiva e quella intellettiva. La terza presuppone la seconda e la seconda è impossibile senza la prima. All’anima vegetativa, che appartiene a tutti i viventi, competono le operazioni di generare e assumere nutrimento. Lo scopo è quello di raggiungere, come per tutti gli esseri animati, il sommo fine, ovvero quello di partecipare dell’eterno e del divino nei limiti assegnati a ciascuno dalla propria natura:
“Siccome il vivente non è in grado di partecipare dell’eterno e del divino in modo continuo, perché nessun essere corruttibile può permanere lo stesso e unico numericamente, perciò ciascuno ne partecipa nel modo che può, uno più, l’altro meno, e permane non lui ma un altro come lui”. (2)
L’anima sensitiva possiede due elementi sconosciuti all’anima vegetale, la sensazione ed il movimento, strettamente connessi tra loro. Rispetto agli altri animali l’uomo secondo Aristotele è quello più dotato del senso tattile e per questo “è anche il più intelligente degli animali” . Se l’anima sensitiva è propria anche degli animali, nessun non umano può invece possedere l’anima intellettuale. L’uomo è il solo depositario dell’intelletto attivo, la condizione di ogni attività di pensiero.
Tutti gli animali trovano posto nell’ordine gerarchico che si viene così istituendo, dove padrone e schiavo, uomo e animale, maschio e femmina si trovano in rapporto reciproco secondo un ordine che è così come deve essere.
Inoltre Aristotele sostiene che dato che il “minore” esiste per soddisfare gli interessi e gli scopi del “maggiore”, gli animali sussistono allo scopo di promuovere il bene degli esseri umani. Infatti dice che “ è naturale e giovevole per il corpo essere soggetto all’anima […] Ora gli stessi rapporti esistono tra gli uomini e gli altri animali” . Quindi non riconosce agli animali non umani alcuno scopo più alto che quello di servire gli interessi degli esseri umani. Ma bisogna ricordare che per Aristotele non sono solo gli animali che esistono per il bene degli esseri che sono “più perfetti” (cioè gli uomini liberi). Le donne, infatti, non raggiungono quasi mai il livello di perfezione, “nelle relazioni del maschio verso la femmina, l’uno è per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata, ed è necessario che tra tutti gli uomini sia proprio in questo modo.” Inoltre alcuni esseri umani non hanno la capacità di afferrare attraverso la ragione le verità che sono capite solo dalle persone maggiormente virtuose, questi individui vengono chiamati “schiavi di natura”. Da ciò si può notare come si stabilisca un parallelo tra lo stato morale degli schiavi umani e gli animali non umani. “L’uso che si fa degli schiavi e degli animali domestici non è molto diverso; poiché entrambi con il loro corpo servono alle necessità umane.”
Quindi questi uomini che, grazie alla loro superiore razionalità, sono moralmente migliori, hanno il diritto di utilizzare quelli (siano essi schiavi, donne o animali non ha importanza) che non posseggono le virtù necessarie alla definizione della perfezione umana.
La posizione di Aristotele tuttavia, sebbene sia una delle più significative e sia quella che ha poi maggiormente influito sullo sviluppo del pensiero successivo, non è rappresentativa di tutto il pensiero greco classico. Se prendiamo in considerazione pensatori come Pitagora o Porfirio, ad esempio, notiamo come avessero una visione più “egualitaria” del posto degli uomini tra gli animali. Diogene Laerzio infatti ci dice che Pitagora venerava solo l’altare di Apollo Genitore in Delo
“per il fatto che vi si deponevano solo frumento, orzo, focacce […] e che non vi erano vittime animali” e di come si accontentava di mangiare solo “miele, favo o pane” e che “spesso come companatico usava verdure cotte e crude”. (3)
Per Pitagora non esistevano corpi senz’anima e in accordo con le dottrine egiziane ed orfiche predicava la teoria della metempsicosi, con la differenza, rispetto a queste, di vedere la reincarnazione come processo di purificazione: il rispetto degli animali in Pitagora è frutto di un’antropomorfizzazione di tutti gli esseri, in quanto in ognuno di essi si può trovare un’anima potenzialmente umana, imprigionata in corpi non-umani per la sua evoluzione ulteriore. Un significativo esempio delle dottrine di Pitagora ci è dato dal racconto che Porfirio fa in alcuni passi de La vita di Pitagora. Un carattere simbolico ed esemplare sembra assumere, in particolare, l’incontro tra il Maestro e l’orsa daunia.
L’orsa, colpevole di atroci misfatti, è il terrore degli abitanti del luogo, che temono di essere divorati. Ad essa si fa incontro senza timore Pitagora, conquistandone fiducia e confidenza; le offre quindi cibi vegetali (focacce d’orzo e frutti arborei), che l’orsa accetta, promettendo al Maestro di non toccare più un essere animato.
La trasformazione dell’orsa è straordinaria: se prima assaliva ferocemente gli uomini, adesso li risparmia e rispetta persino gli altri animali.
L’episodio, rileva G. Camassa , assume chiaramente un significato simbolico che trascende il significato letterale: una dieta alimentare non carnea, radicalmente vegetariana, può, a giudizio di Pitagora e Porfirio, riscattare gli esseri viventi dall’aggressività e dalla violenza. Come l’orsa daunia, prima della trasformazione, anche noi uomini infliggiamo sofferenze e morti violente agli animali per cibarcene; natura e cultura ci offrono, invece, alternative non cruente per la nostra alimentazione che potrebbero renderci più miti e non violenti sia nei confronti dei nostri simili che degli altri esseri viventi sulla comune madre Terra.
Il neoplatonismo, soprattutto con l’opera di Plutarco e Porfirio, riafferma la necessità di praticare giustizia nei confronti di ogni vivente. Contro stoici e peripatetici Plutarco sostiene che gli animali non possiedono solo la sensazione, ma anche l’intelletto. La debolezza degli animali aggrava l’ingiustizia che gli uomini commettono nei loro confronti.
Analizzando la Vita di Catone si può notare come Plutarco, pur ammirando le virtù morali dell'Uticense, ne prenda decisamente le distanze; non si può seguire, infatti, a suo giudizio, il consiglio di Catone di liberarsi di schiavi e animali domestici divenuti vecchi e inutili. Si tratta di una posizione utilitaristica cui Plutarco contrappone l'esigenza di un atteggiamento di benevolenza disinteressata nei confronti di ogni essere vivente, che è poi la radice di ogni vera filantropia .
Nel De esu carne sostiene che la "sarcofagia" è una pratica contro natura, giacchè l'uomo non è costituzionalmente dotato di mezzi per catturare e uccidere le sue prede, né di un apparato digerente idoneo a ricevere carne. Per Plutarco, la “sarcofagia” non solo contravviene al principio del rispetto della vita di ogni essere vivente, ma nuoce sia alla salute fisica dell'uomo che a quella della sua anima, anch'essa contaminata e intorpidita da cibi impropri. Egli arriva a chiedersi
“quale stato d’animo o disposizione mentale abbia spinto il primo uomo a compiere un delitto con la bocca, ad accostare le labbra alla carne di un animale morto e a definire cibo e nutrimento, davanti a tavole imbandite con corpi morti e corrotti, membra che poco prima digrignavano i denti e gridavano, che potevano muoversi e vedere”. (4)
Nel Le virtù degli animali, conosciuto anche come Il Grillo, Plutarco confuta le tesi stoiche sulla presunta irrazionalità degli animali, dimostrando come essi abbiano invece evidenti capacità di ricordare, agire, prevedere. Gli animali non sono dunque privi di ragione, ma ne sono dotati secondo modalità diverse:
“il senno delle bestie, però, non dà spazio a nessuna arte inutile e vana; e quanto alle arti necessarie, non le abbiamo da estranei, non paghiamo per impararle[…] il nostro senno produce le arti necessarie da se stesso, come legittime capacità congenite”. (5)
Plutarco arriva ad ammettere un certo grado di imperfezione della razionalità animale rispetto a quella umana, ma ritiene destituito di ogni fondamento di verità negarne l'esistenza. In questa opera vi è anche un'interessante e precisa presa di posizione di Plutarco contro la caccia: si tratta, a suo giudizio, di un'attività che imbarbarisce gli uomini, abituandoli al sangue e alla violenza, che poi scateneranno tra di loro, e viola il principio etico fondamentale del divieto di uccidere senza necessità, Plutarco infatti fa dire al Grillo che l’uomo “si nutre di carne, non perché gli manchino altre risorse, ma per dissolutezza e sazietà del necessario va in cerca di alimenti inadatti e impuri, animali sgozzati, con una crudeltà ancora superiore a quella delle bestie più selvagge” .
Ed è proprio in quest’opera che Plutarco più si propone di mettere in luce le virtù proprie degli animali, in contrapposizione alla crescente decadenza dei valori umani riscontrata nel suo tempo. Vengono così valorizzate, forse un po’ ingenuamente, alcune virtù degli animali, come il coraggio, esercitato apertamente e senza inganni, la temperanza, ben lontana dalle smodatezze dell'uomo, l'amore per la prole e numerose altre virtù che proverebbero una indubbia superiorità etica degli animali rispetto agli uomini.
Porfirio di Tiro è l’autore di una delle opere più importanti in difesa degli animali, il De abstinentia carnibus. Sulla base di premesse neopitagoriche e neoplatoniche egli sostiene la necessità del vegetarianesimo, della giustizia e della pace fra tutti gli esseri viventi. Riprendendo Plotino, Porfirio avverte che tutti i viventi sono essenze intellettuali imprigionate nella materia sensibile, il corpo, a causa della difficoltà che abbiamo di riuscire a rimanere uniti all’intellegibile. Uomini e animali quindi fanno parte dello stesso ordine, i cui soggetti hanno diritto alla stessa giustizia. In alcuni paesi gli animali sono addirittura riconosciuti come superiori agli uomini, ad esempio in Egitto i sacerdoti associarono il falco ad Elio, perché, spiega Porfirio
“si accorsero che vive molti anni, che dopo la morte ha capacità divinatorie, che sciolto dal corpo è assai razionale e capace di presagire il futuro, e che termina le statue e muove i templi”.

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I diritti animali nella filosofia medievale

Il cristianesimo portò nel mondo romano l'idea dell'unicità della specie umana, che aveva ereditato dalla tradizione ebraica, ma su cui insisteva con enfasi ancora maggiore per via dell'importanza che attribuiva all'anima immortale dell'essere umano. Gli umani unici fra tutti gli esseri che vivono sulla terra, erano destinati a una vita dopo la morte corporea. Nella sua applicazione agli esseri umani, la nuova dottrina era molto progressista e portò ad uno straordinario allargamento della limitata sfera morale dei romani; ma per quel che riguardava le altre specie questa stessa dottrina servì a confermare ed a deprimere ulteriormente la modesta posizione che gli animali avevano nell'Antico Testamento. Basti pensare a quello che dice sant'Agostino, Padre della Chiesa, a proposito degli animali, la cui vita secondo lui

"è uno spirito vitale formato di aria e di sangue di animale, privo di intelletto che muore con il corpo e si dissolve nell'aria". (1)

Gli animali sono perciò dotati della sola anima sensitiva in perfetto accordo con quanto sosteneva Aristotele. Posizione diversa assume invece Giovanni Scoto Euriugena, primo filosofo neoplatonico ad andare contro il parere dei Padri della Chiesa. Se essi infatti avevano sottolineato la pura sensibilità degli animali allo scopo di esaltare la razionalità umana, Giovanni Scoto dice:

"quale uomo vede così acutamente come l'aquila o la gazzella? [...] Dunque non vedo come tutte queste potenze naturali potrebbero essere presenti nell'anima irrazionale, se essa fosse terra, come dicono i Padri". (2)

Interessante è inoltre la riflessione che fa sull'anima dove pone un sostanziale ridimensionamento della separazione tra l'uomo e la natura affermando che anche gli animali sono dotati di anima immortale. E proprio queste affermazioni gli costeranno una condanna da parte del tribunale ecclesiastico e le sue opere verranno messe all'Indice.
Vi furono quindi all'interno del Cristianesimo delle figure che manifestarono individualmente una certa sollecitudine per gli animali (si racconta persino di santi, come san Neot, che disturbavano le battute di caccia salvando cervi e lepri), ma queste figure non riuscirono a distogliere il pensiero cristiano tradizionale dal suo orientamento esclusivamente "specista".
Per dare un'idea di questa mancata influenza basta analizzare la significativa posizione di Tommaso D'Aquino, autore che può essere considerato rappresentativo della filosofia cristiana precedente la Riforma, e della filosofia cattolica romana fin quasi ai giorni nostri. Egli affermava che

"nessuno pecca se si serve di un essere per lo scopo per cui è stato creato. Ora, nella gerarchia degli esseri quelli meno perfetti sono fatti per quelli più perfetti. Così gli esseri che sono solo viventi, ossia le piante, sono fatte ordinariamente per gli animali, e gli animali son fatti per l'uomo. Perciò se l'uomo si serve delle piante per gli animali e degli animali per gli uomini, non c'è niente di illecito, come il Filosofo dimostra". (3)

In queste parole ritroviamo perfettamente il pensiero di Aristotele che del resto è per Tommaso il filosofo preminente, "il Filosofo".
Tommaso inoltre non dice che la crudeltà nei confronti degli animali sia sbagliata in sé. Non c'è posto per torti di questo tipo nel suo schema morale poiché egli suddivide i peccati in peccati contro Dio, contro se stessi e contro il prossimo. Pertanto i limiti della moralità escludono i non-umani. Non c'è nessuna categoria per i peccati contro di loro. Ma non solo non è peccato essere crudeli contro gli animali, non è neanche caritatevole essere buoni nei loro confronti. Infatti la carità non si estende alla creatura irragionevole per tre motivi:

"perché le manca la capacità di possedere propriamente il bene, che appartiene in modo esclusivo alla creatura umana; perché l'uomo non può avere nessuna amicizia con essa" ed infine perché "la carità si fonda sulla compartecipazione della beatitudine eterna, di cui la creatura irrazionale è incapace".
"In altre parole non possiamo offrire affettuosamente del mangime ai tacchini perché hanno fame; possiamo nutrirli solo se li vediamo come il pranzo di Natale di qualche umano" (4)

infatti per Tommaso è possibile amare queste creature solo come "beni da volere ad altri" ossia " ad onore di Dio ed a vantaggio dell'uomo."
L'influenza di San Tommaso ha continuato a farsi sentire per molto tempo se ancora alla metà del diciannovesimo secolo Pio IX non diede il permesso di fondare una Società per la prevenzione della crudeltà verso gli animali a Roma, sostenendo che accordarlo avrebbe significato ammettere che gli esseri umani hanno dei doveri verso gli animali.

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 I diritti degli animali nella filosofia moderna

 

Dall'umanesimo all'illuminismo

La nascita del pensiero umanistico in contrapposizione alla scolastica ha mandato in frantumi l'immagine medievale dell'universo ponendo al centro di tutto non più Dio, ma l'uomo. La caratteristica prima dell'umanesimo rinascimentale consiste nel suo porre l'accento sul valore e la dignità degli essere umani, nonché sulla posizione centrale degli uomini nell'universo tanto che è possibile sintetizzare nel detto di Pico della Mirandola, "l'uomo è misura di tutte le cose", la concezione nascente. Alla eccessiva concentrazione sul peccato originale e allo svilimento della persona umana in rapporto all'infinita potenza di Dio, ora si contrappone l'idea dell'unicità dell'essere umano, del suo libero arbitrio, della sua potenzialità e dignità; ma a tutto ciò non segue una rivalutazione degli animali, anzi al contrario l'uomo è visto ancora una volta, e forse in misura maggiore, in contrapposizione con il non-umano. Così, gli autori del periodo rinascimentale scrivevano autocompiacenti saggi in cui asserivano che "non si trova al mondo niente che sia più degno di ammirazione dell'uomo" e descrivevano gli umani come "il perno della natura, il centro dell'universo, la catena del mondo". Permanevano dunque antichi modelli di pensiero anche se è proprio in questo periodo che iniziamo ad intravedere i primi autentici dissensi.
Leonardo da Vinci veniva deriso dagli amici perché aveva tanto a cuore le sofferenze degli animali da divenire vegetariano. Nella repubblica degli utopiani di Tommaso Moro, come sostiene Ditadi, si ritiene che la caccia susciti fra gli uomini la crudeltà ed il gusto di uccidere e abitui a non provare orrore per le ferite e il sangue,

"More ha chiaro il processo di imbarbarimento che incomincia con l'uccisione della selvaggina, procede con la macellazione di miti e laboriosi animali domestici e infine approda all'uccisione dell'uomo". (1)

Dello stesso avviso è il suo amico Erasmo da Rotterdam che pensa che

"non esiste pratica, per quanto infame, per quanto atroce, che non si imponga, se ha la consuetudine dalla sua parte" e che "a furia di sterminare animali s'era capito che anche sopprimere l'uomo non richiedeva un grande sforzo" tanto che " da quella fase siamo arrivati a tal grado di frenesia, che tutta la nostra vita è dominata dalla guerra". (2)

E Giordano Bruno, influenzato dalla nuova astronomia copernicana si arrischiò ad asserire che

"l'uomo non è niente più che una formica al cospetto dell'infinito". Egli amava dire che "il filosofo non deve mai sopprimere la luce della ragione per paura dei potenti, mostrandosi insensibile alla voce della natura, né camuffare ipocritamente la verità per ricevere il consenso degli uomini della Chiesa". (3)

Il 17 febbraio del 1600 la Chiesa lo arse vivo a Campo dei Fiori dopo averlo tenuto in carcere per otto anni per non aver ritrattato le sue eresie. Scopo di Bruno fu quello di mostrare la falsità del geocentrismo e dell'antropocentrismo:

"A certi sapienti è piaciuto assommare nell'uomo tutte le cose, [...] in tutte le cose è un unico spirito che agita tutto nella misura in cui esso è agitabile e si adopera in modo da preporre a tutte le cose una specie in essa presente, di modo che essa, con tutto il suo impulso desideri conservarsi". (4)

La razionalità umana è per Bruno, al contrario degli aristotelici, frutto della sua corporeità raffinata. E' la corporeità a determinare il grado di intelletto di un animale, tutti gli animali sono dotati di vari gradi di intelletto, e tutti di sensibilità e di anima. Istinto e intelligenza sono visti non in separazione, ma in continuità:

"L'uomo non è dotato di saggezza maggiore degli altri esseri, per molti numeri egli è superato da molti e anche da quelli che sono irrilevanti per la loro esigua corporeità: ma l'uomo è incorso in una sorte migliore, avendo avuto il dono della mano". (5)

L'autore preferito da Michel de Montagne era Plutarco, tanto che egli attaccò gli assunti umanistici dell'epoca dicendo che

"la presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. E' per la vanità di questa stessa immaginazione che l'uomo si eguaglia a Dio, che si attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature". (6)

Si potrebbe dunque pensare che da questo momento dello sviluppo del pensiero occidentale lo status dei non-umani fosse destinato a migliorare, dal momento che la vecchia concezione tolemaica dell'universo e del posto centrale degli esseri umani all'interno dello stesso stava lentamente perdendo terreno. L'ascesa della scienza moderna era sul punto di prendere l'avvio, ma

"il punto più basso doveva ancora essere toccato", "l'ultimo e più stravagante - per gli animali più doloroso- risultato delle dottrine cristiane comparve alla metà del diciassettesimo secolo, con la filosofia di Cartesio". (7)

Sotto l'influenza della nuova ed entusiasmante scienza della meccanica, Cartesio sosteneva che ogni cosa che consistesse di materia era governata da principi meccanici, del genere di quelli che governano un orologio. Un evidente problema sollevato da questa teoria è quello della natura umana. Il nostro corpo è composto di materia e fa parte dell'universo fisico. Parrebbe dunque che anche gli esseri umani debbano essere delle macchine il cui comportamento è regolato da leggi scientifiche. Cartesio, per sfuggire alla sgradevole ed eretica conclusione che gli uomini siano macchine, introdusse il concetto di anima. Nell'universo vi sarebbero non uno, ma due tipi di realtà: la realtà del pensiero, o anima, da una parte, e la realtà della natura fisica o materiale dall'altra. Gli esseri umani sono coscienti, e la coscienza non può avere origine dalla materia. Cartesio identificò quindi la coscienza con l'anima immortale che aveva la caratteristica di sopravvivere alla morte del corpo e di essere stata creata separatamente da Dio. Ma di tutti gli esseri materiali solo gli uomini hanno un'anima. Perciò in Cartesio la dottrina cristiana secondo cui gli animali non hanno anima si trasforma fino ad arrivare all'assunto che gli animali non possiedono nemmeno coscienza. Essi sono, per lui, semplici macchine, automi che non provano né dolore, né piacere, né alcun'altra cosa. Tutte le realtà materiali, quindi anche gli animali, sono rette da principi meccanicistici che regolano i movimenti come avviene in un orologio. E anche se, quando vengono feriti, piangono e si lamentano, ciò non significa provino dolore, anche un orologio può fare dei rumori, ma questo non vuol dire che soffra. Se le azioni di una animale sono più elevate di quelle di una macchina è solo perché sono macchine più complesse e ciò non deve sorprendere dato che il loro artefice è Dio e non l'uomo.
La prima argomentazione della teoria sugli animali di Cartesio è contenuta nel Discorso sul metodo dove sostanzialmente riprende le argomentazioni di Hobbes, sulla mancanza negli animali di linguaggio e ragione, e di meraviglia e curiosità. E poi continua dicendo che

"si può facilmente osservare che non esistono uomini così ebeti né stupidi, che non siano capaci di combinare insieme diverse parole e comporne un discorso attraverso il quale fare intendere le proprie idee; al contrario che non esiste alcun altro animale, per quanto perfetto e felicemente dotato che faccia lo stesso". (8)

E' facilmente dimostrabile l'erroneità di questa argomentazione, infatti è sostenibile oggi solo se non prendiamo in considerazione le ricerche fatte nel campo dell'etologia sul linguaggio degli animali e in particolar modo sull'apprendimento linguistico di certi scimpanzé, e d'altra parte non è nemmeno vero che non si possano trovare degli esseri umani a tal punto lesionati fisicamente da non essere più in grado di comporre parole e frasi. Ed in ogni caso la prima argomentazione di Cartesio non è in grado di provare le differenziazioni morali che vuole dimostrare.
Inoltre nella Lettera alla Marchesa di Newcastle Cartesio fa notare la netta differenza che vi è fra pensiero e passione. Il primo naturalmente apparterrebbe soltanto agli uomini, mentre la seconda dovrebbe essere presente anche negli animali, che allora dovrebbero essere quanto meno beneficiati dell'anima sensitiva. Ma mentre negli uomini le passioni possono dare vita a pensieri, ciò non può secondo lui accadere assolutamente negli animali; la prova di ciò sta nuovamente nella loro mancanza di espressioni per "segni" o parole.

"Non si è mai saputo di un animale così perfetto da usare un segno per far capire ad altri animali qualcosa che non esprimesse passione [...]. Questa mi sembra un'argomentazione molto forte per provare che la ragione per cui gli animali non parlano come noi non è che gli mancano gli organi, ma che loro non hanno pensieri. [...] Il massimo che si può dire è che anche se gli animali non compiono nessuna azione che ci dimostri che stanno pensando, eppure, dato che gli organi del loro corpo non sono molto diversi dai nostri, si può ipotizzare che esista una qualche forma di pensiero collegata a quegli organi, come quella che sperimentiamo noi stessi, ma di tipo meno perfetto. A questo non ho nulla da replicare, eccetto che se loro pensano come noi, avrebbero come noi un'anima immortale. Ciò è improbabile, perché non c'è alcun motivo di crederlo per alcuni animali senza crederlo per tutti, e molti di loro, quali ostriche e spugne, sono troppo imperfetti perché questo sia credibile". (9)

Concludendo si può dire che la certezza cartesiana secondo cui animali sono macchine si presenta con due facce diverse che conducono molto lontano:

"da un lato è un modello teorico che vuole essere generatore di tecniche, dall'altro è uno schema metafisico generatore e giustificatore del divino chiamato a sua volta a giustificare e a generare la possibilità della scienza meccanicistica. L'orizzonte cartesiano è fortemente ideologico e ciò ha condizionato non poco lo sviluppo della scienza della vita". (10)

Fino alle prime critiche organicistiche del XIX secolo il meccanicismo sarà predominante in medicina e biologia. Ed il pensiero sugli animali di Cartesio ha notevolmente condizionato il cammino dell'umanità in quello che è stato uno dei crimini più grandi, la schiavitù. Il suo pensiero è stato infatti molto utile a uomini come Samuel Johnson, il quale si rifaceva anche ad Aristotele, per dimostrare che le popolazioni dell'Africa centrale non erano niente più che automi, come le bestie, appunto.
Aria di rinnovamento etico si respira invece con il pensiero di Pierre Bayle. Nel Dictionaire historique et critique Bayle critica sia le posizioni di Cartesio sia quelle degli scolastici in merito all'anima delle bestie che

"non ha peccato, e tuttavia essa è soggetta al dolore e alla miseria, sottoposta a tutti i desideri sregolati della creatura che ha peccato. [...]La creatura innocente è sottoposta a tutti i capricci della creatura colpevole [...]. Non è forse crudele ed ingiusto sottoporre l'innocenza a tanti tormenti? La tesi di Descartes ci solleva da tutte queste difficoltà". E sugli scolastici aggiunge "dicano pure e ripetano all'infinito che l'anima dell'uomo ragiona, conosce gli universali e il bene morale, mentre l'anima degli animali non conosce nulla di tutto ciò; noi risponderemo che queste differenze sono soltanto accidentali e non un segno di distinzione specifica tra soggetti." (11)

Ma è il curato di campagna Jean Meslier, contemporaneo di Bayle che con il suo Testament si fa portavoce di un pensiero propriamente animalista. Spirito ardente e libero, si scagliò contro la schiavitù degli animali e dei contadini. Ben due capitoli della sua opera sono infatti dedicati alla questione animale. Egli ritiene una

"crudeltà, una barbarie, uccidere, accoppare, sgozzare animali che non fanno niente di male; essi sono sensibili al male ed al dolore come noi, malgrado ciò che dicono vanamente, falsamente i nuovi cartesiani che guardano loro come pure macchine senz'anima e senza alcun sentimento e che per questa ragione [...] li dicono interamente privi di ogni conoscenza e di ogni sentimento di piacere e dolore. Ridicola opinione, massimamente perniciosa, detestabile dottrina che tende manifestatamene a soffocare nel cuore degli uomini tutti i sentimenti di bontà, di dolcezza e di umanità che potrebbero avere per questi poveri animali". (12)

Francois-Marie Arouet, detto Voltaire ritenne l'opera di Meslier molto importante per la sua polemica anticlericale, ed anche per questo suo scagliarsi contro l'uccisione degli animali tanto che nel 1772 nel suo Il faut prendre un parti ou un Principe d'action scrive:

"C'è forse qualcosa di più abominevole del nutrirsi continuamente di cadaveri? [...] Né tra i monaci né nel concilio di Trento né nelle nostre assemblee del clero né nelle nostre accademie si è mai pensato di chiamare un male quella carneficina universale". (13)

Ma la sua polemica si rivolge soprattutto verso Descartes ed i suoi seguaci quando scrive che

"per cercare di conciliare assieme le scarse chimere, Descartes suppose che l'uomo pensi sempre. Tanto vale immaginare che gli uccelli non cessino mai di volare e i cani di correre poiché i primi possiedono la facoltà di volare ed i secondi quella di correre. [...] La scappatoia cui son ricorsi coloro che hanno voluto difendere quel romanzo è stata quella di dire che si pensa sempre, ma senza rendersene conto. Tanto varrebbe dire che si beve, si mangia, si va a cavallo senza saperlo. Se non vi accorgete di avere idee, come potete affermare di averle?". (14)

Sostanzialmente Voltaire sosteneva che se supponiamo che gli uomini abbiano incessantemente idee, percezioni, concezioni anche quando non se ne rendono conto, allora anche gli animali ne hanno sempre, dal momento che non vi sono dubbi che un cane, ad esempio, ha ben chiara l'idea del suo padrone quando gli obbedisce. Quindi se il pensiero dell'uomo è la sua essenza, anche quello degli animali sarà lo stesso. Per superare questa difficoltà Cartesio aveva sostenuto che gli animali sono delle semplici macchine, che cercano cibo senza sentire la fame, che hanno gli organi sensoriali, ma non hanno sensazioni e via dicendo, creando così una contraddizione interna.
Come possiamo notare spesso le riflessioni sulla questione degli animali non umani, in filosofia, è stata legata a quella sull'anima, in quanto il pregiudizio di fondo della filosofia, almeno fin quando la filosofia è stata legata al pensiero religioso, è stata la "discriminante anima".
E per molto tempo il dibattito ruoterà intorno alle concezioni cartesiane, che evidentemente aveva sconvolto, e non poco, il senso comune e la filosofia teoretica affermando che i corpi viventi sono macchine. E' anche grazie alle critiche fatte a Cartesio che si iniziarono ad avere, come abbiamo visto, dei significativi cambiamenti nel modo di concepire gli animali.
Hume esprimeva un sentimento abbastanza diffuso quando affermò che siamo "costretti dalle leggi dell'umanità a trattare cortesemente tali creature". Hume ruppe di netto con Cartesio ribaltandone il razionalismo metafisico, e mettendone in evidenza le numerose contraddizioni. Per lui infatti la ragione è sempre schiava della passione e l'istinto, lungi dall'essere una facoltà inferiore, è proprio sia dell'uomo che dell'animale, la differenza nell'uomo sta nella capacità "dialettica", che allarga incomparabilmente la sfera della sua esperienza. Nel Trattato sulla natura umana scrisse che

"subito dopo il ridicolo di negare una realtà evidente, c'è quello di darsi molta pena per difenderla, e nessuna verità appare più evidente di questa : gli animali sono dotati di pensiero e di ragione come gli uomini". (15)

Le funzioni fondamentali della mente sono quelle della memoria, della rassomiglianza e dell'analogia, e sono perfettamente identiche nel funzionamento di tutti gli animali superiori:

"Così tutti i principi interni che in noi sono necessari per produrre l'orgoglio o l'umiltà, sono comuni a tutte le creature; e dal momento che le cause che suscitano queste passioni sono anche le stesse, possiamo giustamente concludere che queste cause agiscono nello stesso modo in tutta la creazione animale." (16)

Il diciottesimo secolo è anche l'età in cui si riscopre la "Natura": il buon selvaggio di Rousseau rappresentò il culmine di questa idealizzazione della natura. Rousseau amò leggere Plutarco e fu sicuramente d'accordo con Hume sulla differenza di grado e non di essenza tra gli uomini e gli animali tanto da scrivere:

"Pare che io si obbligato a non fare alcun male al mio simile meno in quanto è un essere ragionevole che non in quanto è un essere sensibile; qualità che, essendo comune alla bestia e all'uomo, deve dare alla prima per lo meno il diritto a non essere maltrattata dal secondo". (17)

Ma è il suo amico e poi oppositore filosofico Diderot a chiedersi esplicitamente nella sua Encyclopédie che cosa sia l'animale, risolvendo le sue teorie in una sorta di materialismo vitalistico, nel quale l'essere e gli esseri nascendo e morendo si scambiano e si mescolano continuamente l'uno nell'altro,

"dall'elefante alla pulce, e dalla pulce alla molecola sensibile e vivente che costituisce l'origine di ogni cosa, non c'è punto in tutta la natura che non soffra o non goda." (18)

Ma l'Illuminismo non toccò allo stesso modo tutti i pensatori. Immanuel Kant, nelle sue lezioni di etica, diceva ancora ai suoi studenti:

"per quanto riguarda gli animali, noi non abbiamo nessun dovere diretto nei loro confronti. Gli animali non hanno autocoscienza e quindi non sono che mezzi rispetto a un fine; tale fine è l'uomo". (19)

Si può dire che con Kant la prospettiva etica antropocentrica abbia trovato la sua formulazione più sofisticata. La visione di Kant fa ancora visibilmente parte della tradizione che da un lato risale ad Aristotele e dall'altro alla dottrina cristiana che vede gli uomini partecipi insieme del mondo materiale e di quello spirituale. Da Aristotele Kant mutua la tesi che gli animali " sono semplicemente mezzi a un fine e questo fine è l'uomo". Dalla dottrina cristiana ha mutuato l'idea che gli esseri umani sono divisi tra due mondi, il mondo materiale della sensibilità e il mondo della ragione. Ed è proprio perché gli animali non sono in grado di ragionare, non sono autocoscienti, che esistono come mezzi ad un fine. Gli umani al contrario in quanto esseri ragionanti, autocoscienti, devono essere rispettati come fini in sé. Riguardo ai doveri verso gli animali egli dice che

"non vi sono verso di essi doveri diretti, ma solo doveri che sono doveri indiretti verso l'umanità. Poiché gli animali posseggono una natura analoga a quella degli uomini, osservando dei doveri verso di essi, osserviamo dei doveri verso l'umanità, promovendo con ciò i doveri che la riguardano. Per esempio, se un cane ha servito a lungo fedelmente il suo padrone, ciò costituisce qualcosa di analogo a un'azione meritevole e perciò richiede la nostra lode e, quando non sarà più in grado di renderci i suoi servizi, noi dovremmo tenere la bestia presso di noi fino alla morte. Infatti, noi promuoviamo i nostri doveri verso l'umanità laddove ci troviamo obbligati a compierne". (20)

Quindi Kant riconosce agli animali solo una sorta di "diritti indiretti" che pervengono da una difesa non tanto degli animali in sé, ma piuttosto da una difesa dei valori dell'umanità in quanto

"per non distruggerla, l'uomo deve mostrare bontà di cuore già verso gli animali, perché chi usa essere crudele verso di essi è altrettanto crudele e insensibile verso gli uomini. Si può conoscere il cuore di un uomo già dal modo in cui tratta le bestie". (21)

Insomma una specie di spirito caritatevole nei confronti degli animali serve all'uomo per elevare il suo senso di umanità:

"I nostri doveri verso gli animali sono indirettamente doveri verso l'umanità". (22)

Purché ci limitiamo ad evitare la crudeltà nel trattamento degli animali, non facciamo niente di male nell'utilizzarli.
L'obiezione che viene comunemente posta a Kant in ambito animalista scaturisce dall'argomentazione dei casi marginali. Tutti gli esseri umani esistono come fine a sé stessi in quanto dotati di raziocinio. Tuttavia, non tutti gli esseri umani sono razionali ed autonomi, coloro che sono menomati o deboli, ad esempio, sono privi di queste capacità. Allora ci si può chiedere se questi esseri umani siano ancora fine a se stessi secondo la teoria kantiana. Se la risposta risultasse affermativa, allora non è la presenza della razionalità e dell'autonomia che è fondamento di questo valore morale supremo; se invece la risposta fosse negativa allora ne segue che questi esseri umani "marginali" non esistono come fine a se stessi, nel senso che anch'essi potrebbero essere trattati come gli animali come mezzi. Dato che si suppone che quest'ultima conseguenza sarebbe da Kant aborrita, allora sembra giusto pensare che la volesse evitare, ma l'unico modo per sfuggirvi è proprio quello di accettare che gli individui che non sono né razionali, né autonomi esistono tuttavia come fine a se stessi, teoria che scalzerebbe la sua fiduciosa asserzione che gli animali esistono "unicamente come mezzo ad un fine", essendo tale fine l'uomo.

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Nascita della filosofia animalista

Nel 1792 compare a Londra un libello provocatorio: A Vindication of the Rigths of Brutes. L'autore di questo scritto è Thomas Taylor, studioso di filosofia neoplatonica ed amico personale, per un certo periodo, di Mary Wollstonecraft, autrice della ben più celebreVindication of Rights of Women. Con questo scritto egli si propone di sbeffeggiare in una sorta di riduzione all'assurdo proprio le tesi delle emancipazioniste e più in generale le teorie rivoluzionarie dei diritti. Se esseri, così vicini alla natura e privi di razionalità come le donne, pretendono di possedere la ragione e quindi rivendicano dei diritti, per assurdo allora anche gli animali potrebbero avanzare legittimamente la stessa richiesta. Ironicamente afferma che il suo proposito è quello di dimostrare la perfetta eguaglianza fra uomini e animali e che quindi la teoria dei diritti degli animali non è altro che il perfetto coronamento del processo iniziato da Tom Paine e continuato da Mary Wollstonecraft, entrambi sostenitori dei principi dell'89. Così Taylor, avvalendosi di numerosi racconti di Plutarco, inizia la sua analisi sui diritti dei bruti al fine di dimostrare beffardamente che sono esseri razionali e senzienti. E col pretesto di criticarle, riprende più volte le tesi di Aristotele, con l'intento di far venire fuori l'immagine di un unico individuo pienamente razionale al di sotto del quale si dispiega una pluralità di figure (donne, schiavi) cui è negata ogni razionalità e che pertanto è relegata ai margini della sfera umana: costituita esclusivamente dagli esseri umani di sesso maschile.

"In Taylor trova espressione non solo la più classica ideologia patriarcale, ma altresì, la più antica tradizione dualistica, per cui il rifiuto della natura e della corporeità è, insieme, svalutazione della donna, vista come determinata dalla natura in misura maggiore rispetto all'uomo". (1)

Nella Vindication of the Rights of Brutes viene dunque ripresa quella associazione simbolica fra donna e natura che percorre quasi tutto il pensiero occidentale e permette di screditare le qualità intellettuali femminili con la scusa che, se si è "così vicini alla natura", non si può essere pienamente razionali e quindi si fa parte di una "specie inferiore". La donna è considerata come l'Altro non dotato di raziocino e per questo motivo, imprevedibile e, quindi, da sottomettere e dominare: praticamente la medesima giustificazione che adesso viene addotta per mantenere in schiavitù gli animali.
Ma, proprio nello stesso periodo in cui Taylor scrive il suo libello, espressione massima della più classica ideologia specista, da una parte nasce la speranza in un regno nuovo, quello della ragione, e dall'altra, come ho già accennato nel capitolo precedente, si ha un'idealizzazione della natura ed emerge l'immagine di un'età presociale in cui l'uomo vive in armonia con tutte le creature. Molto significativo al riguardo è un opuscolo pubblicato a Londra nel 1791, Il grido della natura di John Oswald, poeta e filosofo, sostenitore della Rivoluzione francese e delle cause emancipazioniste dei neri e delle donne. In quest'opera assistiamo ad un'assimilazione della tematica giacobina dei diritti con quella utopica del ritorno alla natura. Oswald, infatti, si propone di ampliare il cerchio delle considerazioni morali oltre i confini della specie umana fino ad includervi ogni essere vivente senziente, così come si legge nella prefazione del suo testo:

"Il mio auspicio è che si avvicini il giorno in cui il crescente sentimento di pace e di buona volontà verso gli uomini abbraccerà, altresì, in un più ampio cerchio di benevolenza, tutte le creature viventi". (2)

Alla base della metafisica di Oswald troviamo delle reminiscenze pitagoriche che si ricongiungono con tematiche rousseauiane. Egli auspica un uomo "nuovo" la cui legalità interiore rispecchi i fini perseguiti dalla natura e ne realizzi i disegni nella propria umanità, nel pieno rispetto delle leggi di natura, per cui ogni uccisione diviene un delitto contro la madre comune.
Rifacendosi a molti filosofi, da Plutarco a Rousseau, Oswald sostiene la superiorità dell'alimentazione vegetariana e, dinnanzi all'argomento che l'uomo sarebbe per natura carnivoro, controbatte rilevando l'impossibilità di dedurre da una pretesa caratteristica naturale una prescrizione morale:

"la giustezza di un'azione deve forse essere determinata puramente dalla capacità fisica dell'agente? Poiché la natura ci ha donato di una sovrabbondanza di vigore animale, ne segue che dovremmo abusarne?". (3)

L'utopia oswaldiana si regge dunque sulla critica del mondo moderno, delle città "fonti di miseria e di vizio", e della scienza che sacrifica "al suo splendore i più cari sentimenti dell'umanità". Agli insegnamenti di Aristotele, Oswald contrappone i precetti di Pitagora e Porfirio, che raccomandano di rispettare le norme di giustizia nei confronti degli animali. Egli teorizza infine una sorta di koinonia, una comunità, una familiarità comune proveniente dall'appartenenza ad un'unica casa comune, la Terra.
La definizione di umanità comincia quindi a subire un allargamento decisivo, non a caso il programma del circolo di Bonville, di cui Oswald è corrispondente, sostiene le cause emancipazioniste. Un altro autore in cui l'idea di un'età dell'oro riconquistata alimenta la speranza di un futuro di "benevolenza" verso i bruti è George Nicholson.
Egli infatti in On the Conduct of Man to Inferior Animals, sostiene che la stessa tendenza umanitaria che ha emancipato gli schiavi si dovrà estendere a tutte le altre specie, ma per poter far questo, prima di tutto, è necessario superare la nozione di grande "salto" tra animale ed uomo e riconoscere il comune vincolo che unisce tutti i viventi. E così si viene formando la regola universale di Nicholson:

"tratta l'animale che è in tuo potere come tu vorresti essere trattato se fossi quell'animale".

Con tale estensione della regola "aurea" ai non-umani si vuole affermare che bisogna distaccarsi da un'etica antropocentrica e accogliere un'etica che si preoccupi di un'eguale considerazione degli interessi di tutti gli esseri senzienti.

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Darwinismo

Già nel corso del settecento si manifesta un vivo interesse per le grandi scimmie ed alcuni scienziati avanzano tesi eretiche circa il nostro rapporto con loro. Quando il biologo francese Linneo elabora il nostro sistema moderno di classificazione delle piante e degli animali in specie, genere e famiglia, ordine, classe e regno, si accorge di aver messo a punto un sistema che inserisce uomini e scimmie nello stesso genere. Tutto ciò gli procura non poche preoccupazioni, giacché va contro l'idea sostenuta dalla chiesa luterana e dalle altre chiese del tempo secondo cui gli uomini sono esseri unici e creati separatamente. Così Linneo viene meno ai propri criteri collocando gli uomini, da soli, nel genere Homo e perfino in una famiglia riservata solo a loro, gli Hominidae. Ma non deve essere molto orgoglioso di quello che ha fatto se nel 1788 scrive ad un amico

"Chiedo a lei e al mondo intero di mostrarmi un carattere generico [...] che distingua l'uomo dalla scimmia. Per conto mio, certamente non ne conosco nessuno. Sarei ben felice che qualcuno me lo indicasse. Ma se avessi detto che l'uomo è una scimmia sarei incorso nelle condanne di tutti gli ecclesiastici. Forse come naturalista avrei dovuto farlo". (4)

Lord Monboddo, uno scozzese pioniere dell'antropologia, va più in là. Nella sua opera principale, On the Origin and Progress of Languages, dopo aver descritto le somiglianze fra uomini ed oranghi, conclude che "sembra certo che essi appartengano alla nostra specie". L'interesse di Monboddo si riallaccia dunque al tentativo di ridurre la distanza fra uomo e animale al fine di restaurare l'antica armonia che regnava fra tutte le creature nell'età dell'innocenza. Dunque nel mondo settecentesco il dibattito sui diritti degli animali coagula in una molteplicità di tematiche che vanno da questioni di tipo metafisico ad altre di carattere etologico o etico. La ridefinizione dell'animale va di pari passo con quella dell'uomo, che non viene più posto al centro dell'universo, ma diviene membro di una comunità dai confini più estesi.
Mezzo secolo più tardi, nel 1871, Darwin pubblica L'origine dell'uomo. La sua teoria mina indissolubilmente le fondamenta dell'intera visione occidentale del posto della nostra specie all'interno dell'universo, affermando che siamo animali e abbiamo la stessa origine naturale degli altri animali. Le differenze che separano noi e gli animali sono solo di grado, non di genere. Darwin non poggia la propria tesi esclusivamente sulle somiglianze fisiche. I capitoli 3 e 4 dell'Origine dell'uomo dimostrano che noi possiamo rintracciare negli animali non umani le radici delle nostre stesse capacità di amare, di ragionare e perfino quelle del nostro senso morale. Se l'uomo infatti è fornito degli stessi sensi degli animali inferiori, le sue intuizioni fondamentali devono essere le stesse. Infatti, l'uomo ha in comune con essi istinti come quello dell'autoconservazione, dell'amore sessuale, l'istinto materno e così via. Persino riguardo a quella che è considerata la più alta capacità dell'uomo, l'amore, Darwin descrive come il cane e le scimmie mostrino gelosia se il padrone accarezza un'altra creatura, quindi oltre ad essere in grado di amare, sentono il desiderio di essere amati.

La prima dichiarazione dei "Diritti degli animali": Henry Salt

Quid rides? Si legge come sottotitolo sul frontespizio dell' A Vindication of the Rigths of Brutes di Taylor. Proprio la sua satira che dovrebbe avere un valore rassicurante fa invece emergere inquietanti interrogativi. Nell'intenzione dell'autore, il mondo alla rovescia da lui costruito deve servire a scuotere le coscienze, deve essere un'utopia negativa da cui ritornare, rassicurati e convinti, all'ordine consueto, dove l'uomo domina su tutti gli altri esseri (donne incluse). Il primo uso storico dell'espressione diritti degli animali intende quindi sottolineare l'assurdità di tali diritti. L'uso successivo sarà invece radicalmente opposto.
Proprio cento anni dopo lo scritto di Taylor appare, infatti, uno dei più importanti testi per la nascita della filosofia animalista: Animal's Rights Considered in Relation to Social Progress, basato su un'impostazione del tutto nuova del rapporto uomo/animale. Il suo autore, Henry Salt, amico di Gandhi, fondatore della Humanitarian League, vi elabora una vera e propria ideologia animalista, nutrita di diverse ed eterogenee tradizioni di pensiero, quali l'utilitarismo benthamiano, il liberalismo di Spencer e il darwinismo. Secondo Salt infatti

"gli animali hanno diritti e tali diritti consistono nella limitata libertà di vivere una vita naturale, una vita cioè che consenta lo sviluppo individuale, soggetta alle limitazioni imposte dai permanenti bisogni ed interessi della comunità". (5)

La prospettiva in cui egli si muove è dunque pienamente liberale, perciò l'affermazione dei diritti degli animali si inquadra nel più vasto e vittorioso movimento per la rivendicazione dei diritti umani, nel solco aperto dalle opere di Tom Paine e Mary Wollostonecraft, proprio come satireggiando aveva sostenuto Taylor che sarebbe potuto avvenire.
D'altronde la proposta di applicare agli animali un concetto tipicamente umano quale il diritto, è ora reso possibile dalla rivoluzione antropologica darwiniana. Non si potrà, secondo Salt, ottenere piena giustizia per le razze fin quando si continuerà a considerarle come esseri di un ordine totalmente diverso ed inferiore, ignorando le innumerevoli affinità col genere umano. Vi è secondo lui una grossa analogia fra la attuale condizione degli animali e la precedente condizione degli schiavi, le stesse ipocrite bugie per giustificarne l'oppressione, la medesima esclusione dal comune ambito dell'umanità. E qui troviamo un chiaro riferimento a Bentham ed al famoso parallelo da lui posto tra schiavitù umana e schiavitù animale. Con Salt assistiamo dunque ad una esplicita teorizzazione della liberazione degli animali, nel richiamo ad un'idea di un'umanità non più confinata all'uomo, ma allargata a quegli esseri

"la cui sola colpa è di non appartenere alla nobile famiglia dell'homo sapiens".

Ogni grande movimento di liberazione ha proceduto secondo queste linee, allargando man mano il cerchio a sempre nuove categorie di esseri. E' dunque un errore, sottolinea Salt, pensare che i diritti degli animali siano in qualche modo antagonisti a quelli degli uomini. Ingiustizia verso gli uomini ed ingiustizia verso gli animali sono indissolubilmente legate assieme.

"Se i diritti esistono e sentimenti e costumi indubbiamente provano che esistono, essi non possono coerentemente essere riconosciuti all'uomo e negati agli animali, giacchè lo stesso senso di giustizia si applica in entrambi i casi". (6)

Tuttavia l'attribuzione dei diritti morali, da parte di Salt, avviene sulla base di un'argomentazione assai differente da quella data satiricamente da Taylor o dalla stessa Wollstonecraft, che ritenevano che i diritti derivassero dal possesso della ragione. Per Salt invece non è necessario che gli animali siano in grado di ragionare o parlare per meritare il diritto alla considerazione morale, ma è sufficiente che siano capaci di soffrire. Abbiamo quindi un altro esplicito riferimento a Bentham che lo porta a teorizzare che la caratteristica vitale su cui si fonda tale diritto sia la sensibilità, ovvero la capacità di provare dolore e piacere, comune a tutti gli animali, umani e non. (7)
Quindi gli animali, come gli uomini hanno titolo per possedere taluni diritti fondamentali: naturalmente ci si riferisce a diritti morali che, a differenza dei diritti legali, sono universali ed appartengono, in egual misura a tutti i possessori di una vita, indipendentemente dalla loro razza, sesso e specie.
Occorre inoltre rilevare che si tratta di un appello alla giustizia, non al sentimento, Salt infatti scrive

"non è una richiesta di pietà, ma di giustizia [...] Occorre coltivare un ampio senso di universale giustizia per tutti gli esseri viventi". (8)

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I diritti degli animali nella filosofia contemporanea

 

  • Un filosofo animalista di inizio secolo: Piero Martinetti
  • I filosofi e gli animali oggi
  • Il movimento di liberazione animale: Peter Singer
  • Tom Regan e la teoria dei diritti
  • Etica della cura

     

  • Un filosofo animalista di inizio secolo: Piero Martinetti

    Agli inizi del novecento anche a causa delle nuove scoperte nel campo dell'etologia e della fisiologia il dibattito sul problema animale riprende vigore, e, in particolar modo, si discute sulla possibilità o meno di una psicologia degli animali, la cui esistenza presupporrebbe che gli animali siano dotati di coscienza. Fra i filosofi che in questo periodo si occupano di tali questioni un posto molto rilevante è occupato da Piero Martinetti. L'amore ed il rispetto che egli dimostra agli animali sono un caposaldo del suo idealismo etico-religioso, mentre la sua visione religiosa lo porta a seguire una forma di vegetarianesimo molto rigida, paragonabile per intransigenza forse solo a quella praticata dalla tradizione eretica dei catari.
    Nel 1926 Martinetti pubblica nella raccolta Saggi e discorsi un saggio intitolato La psiche degli animali, dove affronta il problema della legittimità della nostra interpretazione della vita degli animali e propone una tesi volta a dimostrare che esistono delle affinità tra la coscienza dell'uomo e la coscienza dell'animale. Dopo un cenno sulle difficoltà della psicologia animale che derivano dall'impossibilità di comprendere a fondo "l'altro" persino quando si tratta di un nostro simile, avvia una profonda critica all'automatismo degli animali discusso dalla teoria cartesiana per poi continuare ad attaccare la teoria dei tropismi di Loeb che riduce la psicologia animale agli stimoli dell'azione fisico-chimica; infine dimostra i gravi limiti della tradizione scolastica che nella divisione della coscienza in senso ed intelligenza nega all'animale l'apertura alla vita spirituale.

    "Essa teme", scrive Martinetti riferendosi alla scolastica, "che tolte le profonde barriere tra l'uomo e l'animale, se ne possano derivare, circa la loro comune natura ed origine, delle conseguenze che essa giudica pericolose." (1)

    A sostegno della sua tesi, Martinetti si avvale dell'apporto di fondamentali studi di importanti filosofi e psicologi a lui contemporanei quali Wundt, Forel, Mackenzie e De Sarlo, e di alcuni riferimenti a filosofi del passato: tra l'altro discute favorevolmente sia la tesi leibniziana sulla "unità di natura tra l'uomo e l'animale" (2) che quella sulla realtà della sofferenza animale. Mentre prende le distanze da uno dei suoi maestri spirituali, Kant, che considera

    "l'animale una cosa, escludendolo dal campo del diritto e della morale" (3)

    si accosta ad un altro filosofo tedesco: Schopenhauer. Con quest'ultimo filosofo, Martinetti condivide sicuramente l'origine indiana della sua filosofia, nella quale l'animale riveste un ruolo di sacralità e di simbolo dell'eterno e la comune rivendicazione di intelletto e di coscienza dell'animale. E' sufficiente confrontare alcuni passi fondamentali dell'opera di Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, per evidenziare come il suo pensiero sulla conoscenza della casualità e sulla apprensione dell'oggetto da parte degli animali, è ampiamente ripreso e sviluppato da Martinetti tanto da costituirne un elemento centrale di tutto il saggio Sulla pietà degli animali. Sul problema della casualità della coscienza animale, Martinetti si sofferma in particolare in una delle sue opere più importanti, Introduzione alla Metafisica, dove spiega che

    "il concetto di casualità non appare certamente ab initio in questa sua forma logica pura, che è opera del pensiero riflesso: l'intuizione casuale spontanea antecede, com'è naturale, qualsiasi considerazione riflessa sulla causa; essa appartiene già, per quanto in modo ancora iniziale ed imperfetto alla coscienza animale". (4)

    Per quel che riguarda la pietà che l'uomo dovrebbe portare agli animali, è interessante notare come un passo dei Parerga und Paralipomeni di Schopenhauer tradotto da Martinetti può essere considerato quasi come il manifesto di una filosofia animalista:

    "Questa dedizione totale al presente, propria degli animali, è la precipua causa del piacere che ci danno gli animali domestici. Essi sono il presente personificato e ci rendono sensibile il valore di ogni ora di pace e di tranquillità, mentre noi col nostro pensiero andiamo al di là di essa e la lasciamo passare inavvertita". (5)

    Quindi nella prospettiva filosofica di Schopenhauer e di Martinetti l'animale è dotato sia di intelletto che di coscienza e per questo la sua sofferenza deve suscitare nell'uomo una profonda pietà, in quanto

    "non soltanto l'attività, ma gli stessi atteggiamenti, i gesti, la fisionomia tradiscono l'espressione di una vita interiore: una vita forse estremamente diversa e lontana dalla nostra, ma in ogni modo ha anch'essa il carattere della coscienza e non può essere ridotta ad un semplice meccanismo fisiologico". (6)

    L'aspetto fisionomico quale espressione vitale dello spirito animale è per Martinetti molto importante: l'aspetto fisico (negli animali come negli uomini) gli appare come un simbolo vivente di una realtà superiore che può dischiudere alla Ragione, alla verità, alla conoscenza intuitiva dell'Unità assoluta. Si può dunque interpretare l'occhio di un animale quasi come una sorta di cifra linguistica, di parola-animale che porta l'uomo a comprenderne ed accoglierne l'essenza spirituale; così come le parole sono dei simboli di intuizioni che possono

    "risvegliare in noi le sintesi superiori dell'esperienza, ad abbreviare in noi il processo del pensiero che in altri si è venuto lentamente svolgendo di intuizione in intuizione". (7)

    Su questo problema in particolare si soffermerà un allievo di Martinetti, Francesco Ferrari, che sosterrà che

    "la psiche animale si identifica con la stessa realtà e quindi può superare in portata anche la psiche dell'uomo. In questo caso l'animale riuscirebbe a comprendere la morte come essa è veramente, un fenomeno inerente a tutte le attività ed imprescindibile, appunto per questo, da ogni forma di vita". (8)

    La psiche degli animali non è quindi ferma alla sfera sensorio-percettiva e all'anima sensitiva, bensì, per la filosofia di Martinetti, essa ruota verso una dimensione di spontanea intelligenza, dove anche la

    "vita istintiva presente è la creazione dell'intelligenza. Sono gli atti intelligenti di individui vissuti in altre età geologiche, che hanno creato gli istinti: anche là hanno dovuto sorgere di tanto in tanto individui più intelligenti, le cui abitudini sono state imitate e trasmesse, indi perfezionate a lunghi intervalli da nuovi atti d'intelligenza; quindi tutta la saggezza dell'istinto è stata anch'essa intelligenza viva e creatrice". (9)

    L'intento di Martinetti è quello di presentare l'animale come un essere intelligente che differisce solo di grado, ma non di natura dall'uomo; per questo nel Breviario Spirituale egli afferma che

    "anche gli animali sono capaci di moralità, di affetto, di riconoscenza; anch'essi godono e soffrono ed esprimono coi mezzi più suggestivi i sentimenti che essi provano: il dolore delle bestie perseguitate a morte, delle madri ferite che supplicano per i loro figli, ha qualche cosa di umano".

    Il dolore degli animali come la sofferenza degli innocenti testimonia il mistero dell'esistenza e nello stesso tempo rivela per Martinetti l'aspetto tragico della realtà, dove il problema del male suggella la malvagità e l'apparenza del mondo fenomenico. Davanti a queste insuperabili difficoltà che segnano la vita, Martinetti propone una morale superiore, dove la giustizia e la carità orientano l'uomo al di sopra di un'etica autonoma in virtù di un fondamento religioso che riveste l'azione di qualche cosa di alto e di divino.
    Anche per questo motivo, la pietà rappresenta il vero legame che deve intercorrere tra natura, uomini ed animali, perché solo attraverso l'unione di tutti gli spiriti individuali si può realizzare la virtù morale. Si tratta inoltre, secondo Martinetti, di eludere la forma empirica dell'esperienza temporale per cercare una dimensione dell'eterno alla quale possano aspirare tutti gli esseri viventi. La posizione di Martinetti dunque non si limita a rivendicare la dignità dell'animale, bensì vuole dimostrarne i diritti e sostenerne le "facoltà spirituali latenti". In tal modo vengono riscattate con notevole forza teoretica le vicissitudini e i soprusi che il mondo animale ha dovuto subire in tutta la sua storia, anche da una parte della tradizione filosofica occidentale cristiana. Anche per questo Martinetti afferma che

    "la morale buddistica ha sulla evangelica questo vantaggio: essa insegna la carità verso tutti gli esseri, non soltanto verso gli uomini. Essa è servita a diffondere nelle turbe indiane sensi di mitezza, di rispetto della vita animale di fronte a cui noi dobbiamo vergognarci come barbari". (10)

    La rivendicazione della coscienza, dell'intelletto e della libertà degli animali da parte di Martinetti non vuole essere una forma di umanizzazione, bensì una dimostrazione del carattere "ignoto" e "misterioso" della loro anima.

    "In ogni essere dobbiamo quindi pensare, come noi, un momento almeno iniziale, di attività e di libertà, che lotta e si libera: il processo di creazione e di elevazione. Ogni essere ha dinanzi a sé una molteplicità di possibilità, di direzioni che la coscienza gli rivela: e la coscienza non è appunto che in funzione della libertà". (11)

    Il mondo animale non può infatti essere ridotto ad una riduzione del mondo umano, cioè un'interpretazione guidata dalle nostre categorie di pensiero, il compito della coscienza si realizza solo attraverso un'elevazione in grado di trasformare e unificare la natura con lo spirito in una armonia totale e solo allora

    "gli uomini riconosceranno che vi è fra tutte le creature un rapporto ed un'obbligazione vicendevole ed estenderanno, senza sforzo, a tutti gli esseri viventi quei sensi di carità e di giustizia, che ora consideriamo come dovuti soltanto agli uomini". (12)

    I filosofi e gli animali oggi

    In epoca recente le preoccupazioni per i danni causati dalla specie umana all'ecosistema hanno ulteriormente messo in discussione le concezioni antropocentriche e fatto aumentare l'interesse per le tematiche ambientali ed animaliste.
    La nuova riflessione sui rapporti tra l'uomo e i non umani può inoltre inquadrarsi nel cambiamento del clima filosofico verificatosi intorno agli anni '60, quando si ha una transizione dalle ricerche di metaetica ed analisi del linguaggio a quelle di etica normativa ed emergono temi appartenenti in senso proprio alla bioetica. Nel contesto di tali riflessioni, ponendosi al centro del dibattito il concetto di persona umana e dei suoi diritti, si assiste ad un approfondimento della nozione stessa di umano e della crucialità di tale nozione in rapporto, ad esempio, al diritto alla vita. Il che ha condotto a interrogativi analoghi concernenti i non umani.
    L'istanza di una nuova moralità che si occupi dei rapporti che l'uomo deve intrattenere con l'ampia sfera del non umano, si collega anche alla presa di coscienza che la sopravvivenza della nostra specie è strettamente collegata a quella delle altre. La nascente ecologia infatti insegnava in quegli anni che

    "ognuno è legato a tutti gli altri" e, forse, come scrive Gianni Vattimo "in un'epoca in cui l'umanità si vede sempre più minacciata nelle stesse elementari possibilità di sopravvivenza (la fame, la morte atomica, l'inquinamento), la nostra radicale fratellanza con gli animali si presenta in una luce più immediata ed evidente"

    e ci spinge ad un'etica della cura verso i non umani, minacciati con noi e come noi.
    Tuttavia accanto a questa motivazione, quella della comunanza nella paura per la morte, se ne può scorgere un'altra. Infatti seppur separati nella storia, umani e non umani si sono trovati vicini nel momento in cui alcuni umani sono stati posti, perché considerati tali dall'intera comunità, in una situazione da animali. Ed allora ecco la scoperta che l'animalità è una condizione, non un fatto di natura e che la stessa umanità è una condizione che deve essere riconosciuta, e che non può mai venir garantita. Secondo Luisella Battaglia

    "non esiste, in altri termini, dopo Auschwitz, una natura umana il cui possesso assicuri il tranquillo godimento dei diritti: il diritto di essere trattati come umani può venir revocato da un momento all'altro. Sappiamo ormai cosa significa essere trattati come animali, sfruttati come animali, uccisi come animali. La reificazione dell'uomo, la perdita di ogni sacralità della persona, quindi il colmo dell'inumano, ha suscitato un tale orrore, ha traumatizzato così profondamente la coscienza morale da riverberarsi anche sul termine di paragone, il non umano". (1)

    Oggi i modelli di bioetica animale sono molteplici. Ogni modello ha la sua filosofia e il suo sistema di pensiero, per cui non è facile giungere a conclusioni omogenee e definitive. Tuttavia si può affermare che vi sono tre impostazioni principali relativamente al rapporto uomo-animale dal punto di vista etico.
    La prima si basa sulle conseguenze delle azioni in termini di piacere e pena, e si ispira, modificandolo, all'utilitarismo classico e viene denominata "etica della liberazione animale" o "utilitarismo delle preferenze".
    La seconda è una prospettiva giusnaturalistica che postula l'esistenza di diritti naturali degli animali e viene solitamente chiamata "teoria dei diritti animali".
    La terza infine che può essere ricondotta ad un'etica della responsabilità umana, dove i doveri verso gli uomini, gli animali e la natura sono adeguatamente bilanciati.

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    Movimento di liberazione animale: Peter Singer

    Verso gli anni settanta assistiamo all'emergere del cosiddetto movimento di liberazione animale ed alla sua richiesta di porre fine allo "specismo", termine coniato dallo psicologo di Oxford Richard Ryder nel 1970 ed inserito nell'Oxford English Dictonary dove è definito

    "discriminazione o sfruttamento di certe specie di animali da parte degli esseri umani sulla base dell'assunto della superiorità umana".

    Come suggerisce lo stesso termine "specismo", il movimento di liberazione animale pone un parallelismo tra gli atteggiamenti dei razzisti verso i membri di una razza che considerano inferiore e gli uomini che discriminano gli animali in base alla specie. In entrambi i casi c'è un gruppo interno che giustifica lo sfruttamento da esso operato nei confronti di un gruppo esterno sulla base di una supposta differenza, motivazione moralmente inaccettabile.

    "Pur riconoscendo che l'accezione di un fondamentale principio di uguaglianza tra tutti gli esseri umani rappresenta un passo avanti, i teorici della liberazione animale affermano che l'idea di un'uguaglianza umana continua ad escludere dal cerchio incantato moltissime creature senzienti". (2)

    I teorici della liberazione animale si domandano perché se siamo finalmente in grado di comprendere che l'appartenenza ad un'altra razza non è una buona ragione per considerare con minore importanza i suoi interessi, dovrebbe essere una buona ragione farlo per gli appartenenti a specie diverse. Nel decennio successivo alla sua fondazione il movimento conosce una grossa crescita nell'ambito del dibattito sul trattamento degli animali, dalla sperimentazione agli allevamenti, dall'uso delle pellicce alla caccia alle balene. La forza di tale movimento si deve in parte alle sue basi filosofiche che permettono che la critica allo "specismo" sia formulata con molto rigore, molti filosofi infatti condividono la tesi che, per sé sola, una differenza di specie non costituisce una ragione eticamente difendibile per attribuire agli interessi di un essere una considerazione superiore a quella attribuita agli interessi di un altro.
    Colin McGinn, eminente professore di filosofia alla Rutgers University, New Jersey, qualifica lo "specismo" come una tesi confutata.
    Ma colui che si suole affermare sia l'ispiratore del movimento di liberazione degli animali è Peter Singer, filosofo australiano, attualmente direttore del Centre of Human Bioethics presso la Monash University di Melbourne.
    Il suo interesse per la condizione degli animali è iniziato dopo aver conosciuto alcuni vegetariani ed è culminato nel 1976 con la pubblicazione del libro Animal Liberation. In esso viene presentata per la prima volta una critica organica dal punto di vista filosofico dell'attuale condizione di sfruttamento degli animali. In particolare vengono trattati i temi degli allevamenti intensivi e della vivisezione.
    Partendo anche lui, come Henry Salt, dai principi dell'utilitarismo benthemiano li modifica, sostenendo che bisogna basarsi su una prospettiva differente che può essere detta della "media" o della "preferenza", cioè che tenga conto della felicità media di tutti i soggetti coinvolti. Il motivo del passaggio da una teoria all'altra è abbastanza ovvio: la prima visione di utilitarismo (chiamato comunemente utilitarismo della "somma") presenta il grosso difetto di non calcolare il benessere di ogni singolo soggetto, ma soltanto il risultato finale come somma degli effetti. Sicché un'azione che provochi una utilità alta per molti a fronte di gravi sofferenze per pochi sarà comunque preferibile e approvata purché nella somma totale la felicità di molti superi la sofferenza di pochi. Questo ad esempio nel caso della vivisezione porterebbe a giustificare gli esperimenti più aberranti su pochi animali e anche su esseri umani se questi permettessero di salvare molte vite umane.
    Singer invece, con la prospettiva cosiddetta della "media", cerca di tenere conto della situazione di tutti gli interessati, sia pure indicata in termini di utilità media: e questo è particolarmente importante, fa notare Silvana Castiglione, quando nel calcolo si vogliono inserire anche gli animali.
    In questa seconda prospettiva non bisogna sommare algebricamente tutte le singole conseguenze, ma bisogna valutare le preferenze di tutti gli individui coinvolti. E fra queste preferenze bisogna tenere in maggiore considerazione quelle più essenziali come ad esempio il desiderio di sopravvivere. Singer sostiene che

    "il fondamentale principio di eguaglianza, su cui poggia l'eguaglianza di tutti gli esseri umani, è il principio dell'eguale considerazione degli interessi" (3)

    e che questo principio deve essere esteso a tutti gli animali. Il che però non significa che gli animali, umani e non-umani, debbano essere trattati allo stesso modo, ma che la stessa quantità di sofferenza ha lo stesso valore e quindi deve pesare in modo eguale, qualunque sia l'essere che la sperimenta. Tutti gli animali (umani e non umani) sono uguali, perché tutti sono capaci di avere interessi: per esempio, l'interesse a evitare il dolore, a sviluppare le proprie capacità, a soddisfare i bisogni primari di cibo e di riparo, a godere di rapporti amichevoli e di amore con gli altri, ad essere liberi di realizzare i propri progetti senza interferenze non necessarie da parte di altri. Singer è fermamente convinto che solo un principio morale di questo tipo possa consentire di definire una forma di eguaglianza che abbracci tutti gli uomini con tutte le loro differenze, ma anche che questo principio debba conseguentemente essere esteso anche alle altre specie.

    "In altri termini, suggerisco che, avendo accettato il principio di eguaglianza come base morale valida per i rapporti con altri della nostra stessa specie, siamo con ciò impegnati ad accettarlo anche come base morale valida per i rapporti con quelli al di fuori della nostra specie- gli animali non umani". (4)

    In Etica pratica Singer illustra come il principio dell'eguale considerazione degli interessi, unico principio che secondo lui può essere una base solida per qualsiasi discorso di etica, implichi che il tener conto degli altri non dipende dalla loro razza o dalle loro capacità, infatti, se non fosse così potremmo sentirci autorizzati a sfruttare un membro di una razza diversa dalla nostra. E, riprendendo nuovamente Bentham, afferma che la capacità di soffrire è la caratteristica vitale che garantisce ad un essere il diritto ad un'eguale considerazione degli interessi.

    "La capacità di provare dolore o gioia è un prerequisito per avere interessi in generale, una condizione che deve essere soddisfatta prima che si possa parlare di interessi in modo significativo". (5)

    Dunque quale sia la natura dell'essere, il principio di eguaglianza richiede che la sua sofferenza conti quanto l'analoga sofferenza di ogni altro essere. Singer arriva ad affermare che se un essere non è capace di provare dolore o esperienze di gioia o felicità, non c'è nulla da prendere in considerazione. Infatti il limite della sensibilità è il solo confine difendibile per il tener conto degli interessi altrui e tracciare questo confine mediante altre caratteristiche, quali l'intelligenza o la razionalità, sarebbe arbitrario.
    E proprio per confutare la tesi che soltanto gli esseri dotati di ragione e capaci di usare il linguaggio sono soggetti morali, e quindi esseri aventi diritti, fa ricorso all'argomento dei casi marginali. Non tutti gli esseri umani, infatti, hanno il pieno possesso del raziocinio e dell'abilità linguistica: basti pensare ai neonati, ai bambini molto piccoli, e soprattutto ai menomati mentali e a coloro che soffrono di gravi turbe psichiche. Eppure, noi consideriamo aberrante il negare che si possano applicare anche ad essi le categorie morali: non saranno soggetti morali attivi, nel senso che non si può pretendere da loro un comportamento moralmente consapevole, ma sicuramente sono dei soggetti morali passivi, vale a dire dei destinatari di nostri precisi doveri morali, primo fra tutti quello di rispettarli e di non farli soffrire. Il che significa che quando ci riferiamo agli umani marginali per includerli nella sfera dell'etica non prendiamo in considerazione la loro razionalità o abilità linguistica, bensì la loro capacità di soffrire, la loro qualità di esseri sensibili. E a questo punto non si vede perché lo stesso ragionamento non possa venire applicato ai non umani.
    Ne segue che verso gli animali noi abbiamo non soltanto dei doveri indiretti, come diceva Kant, ma dei veri e proprio doveri diretti, che vedono gli animali stessi quali destinatari in prima persona. In definitiva la posizione di Singer è incentrata sul dovere morale di non causare dolore e sofferenza a nessuno degli esseri, umani e non umani, che sono in grado di sperimentarli. Riguardo alla sperimentazione animale Singer arriva ad affermare che

    "ogniqualvolta uno sperimentatore sostiene che il proprio esperimento è abbastanza importante per giustificare l'uso di un animale, dovremmo chiedergli se sarebbe disposto a usare un umano ritardato dal livello mentale simile a quello dell'animale che lui vuole usare. Se risponde di no, siamo autorizzati a ritenere che vuole usare un animale non umano solo perché dà minore valore agli interessi dei membri delle altre specie rispetto ai membri della propria, inclinazione che non può essere ammessa più di quanto non possa esserlo il razzismo o qualsiasi altra forma di discriminazione arbitraria". (6)

    Le connessioni fra razzismo e specismo sono poi meglio evidenziate in alcune domande:

    "Ma se la sperimentazione sugli umani ritardati e orfani non è giusta, perché è giusta quella sugli animali non umani? Che differenza c'è fra i due, eccetto il puro fatto che, biologicamente gli uni sono membri della nostra specie e gli altri no? Questa non è, da un punto di vista morale, una differenza rilevante, così come non lo è il fatto che un essere non è membro della nostra stessa razza. Effettivamente l'analogia fra specismo e razzismo è valida sia in pratica che in teoria nel campo della sperimentazione. Lo spiccato specismo porta a dolorosi esperimenti su altre specie, con la scusa dei loro contributi alla conoscenza e della possibile utilità alla nostra specie. Lo spiccato razzismo ha portato a dolorosi esperimenti su altre razze, con la scusa dei loro contributi alla conoscenza e della possibile utilità per la razza di chi compie esperimenti. Sotto il regime nazista in Germania, quasi 200 dottori, alcuni dei quali eminenti nel mondo della medicina, presero parte ad esperimenti su prigionieri ebrei, russi e polacchi". (7)

    Il concetto di sofferenza non cambia in base alla specie o alla razza, al massimo cambia in base all'intensità: pertanto l'interesse ad evitare la sofferenza accomuna gli esseri umani e gli animali e deve essere valutato in maniera uguale.
    Sembrerebbe allora che Singer abbia una posizione totalmente abolizionista nei confronti della vivisezione, mentre in realtà il filosofo australiano lascia aperta una possibilità che per altro ha attirato le ire di tutte le associazioni antivivisezionistiche abolizioniste e gli ha causato molte critiche di incoerenza ed accuse di collusioni con case farmaceutiche.
    Infatti Singer ritiene che, coerentemente con la sua posizione utilitaristica ed antispecistica, la valutazione sulla laicità morale di un esperimento debba tenere conto del numero dei soggetti coinvolti e della sofferenza che si provoca o si evita nelle specie coinvolte. Pertanto gli unici esperimenti permessi sono quelli in cui saremmo disposti a utilizzare in maniera alternativa animali o esseri umani "marginali" come afferma quando dice che

    "dal momento che un pregiudizio specista, come pure razzista, non ha giustificazioni, un esperimento non può essere giustificabile a meno che non sia così importante da giustificare anche l'impiego di un ritardato umano [...] Se veramente fosse possibile salvare molte vite con un esperimento che costasse una sola vita, e non ci fosse nessuna altra maniera di salvare quelle vite, potrebbe essere giusto fare quell'esperimento". (8)

    In un testo del 1994, Ripensare la vita, Singer fa un ulteriore passo avanti e propone una ridefinizione totale dello stesso concetto di "persona".
    Egli sostiene, infatti, che noi spesso usiamo il termine persona come sinonimo di essere umano, mentre invece tecnicamente "persona" è un essere dotato di determinate caratteristiche, quali per esempio l'uso della razionalità e l'autocoscienza. Dunque una persona non è per definizione un essere umano, ma qualsiasi essere sia in grado di ragionare e abbia coscienza di sé. E la scienza oggi ha dimostrato che vi sono esseri, quali le grandi scimmie, che possono rientrare a pieno titolo in questa categoria. Tuttavia non fa alcuna differenza per noi, se un essere è una persona o meno, rispetto al modo in cui dobbiamo trattarlo, infatti l'importante è se sia o meno in grado di soffrire e solo da questo deve dipendere la nostra sollecitudine ed il nostro agire, non dal grado di razionalità ed autocoscienza che possiede. Tuttavia, sottolinea Singer

    "una volta lasciato cadere l'assunto che, per avere diritto alla vita, un animale deve essere umano, dovremmo cominciare a considerare le caratteristiche e le capacità che un animale deve possedere per avere quel diritto. Nel farlo, tuttavia, non potremo non renderci conto che se poniamo il confine a qualsiasi livello al di sopra del mero possesso della vita, alcuni esseri umani non riusciranno a raggiungerlo. Allora diventerà molto difficile continuare a sostenere che questi esseri umani hanno un diritto alla vita, se nello stesso tempo si nega tale diritto ad animali con caratteristiche e capacità uguali o superiori". (9)

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    Tom Regan e la teoria dei diritti

    Un altro autore di spicco dell'animalismo contemporaneo è l'americano Tom Regan, professore di filosofia presso l'Università del Nord Carolina. Egli ha legato il suo nome alla teorizzazione di veri e propri diritti attribuibili agli animali, soprattutto nella sua opera del 1983, The Case of Animal Rights, che costituisce quasi una summa di tutte le problematiche animaliste, da quelle strettamente filosofiche, come l'analisi e in molti casi la confutazione delle posizioni di Tommaso, Cartesio e Kant, a quelle concrete quali la vivisezione, gli allevamenti intensivi, la caccia alle balene e la conservazione della diversità biologica.
    Regan condivide con Singer l'idea di base che gli animali hanno rilevanza morale diretta, ma non accetta la prospettiva utilitaristica, non ritenendola idonea a tutelare gli animali in tutte le circostanze, in quanto sempre aperta al calcolo utilitaristico dei maggiori benefici e comunque troppo legata a considerazioni antropocentriche. Esiste invece, secondo lui, la teoria dei diritti per cui:

    "certi individui hanno dei diritti morali (per esempio il diritto alla vita), e li hanno indipendentemente dalla considerazione del valore delle conseguenze che deriverebbero dal loro riconoscimento. Per la teoria dei diritti, in altre parole, i diritti sono più importanti dell'utilità e sono indipendenti da essa". (10)

    Ciò che importa, secondo Regan, non sono le valutazioni in termini di conseguenze apportatrici di felicità, bensì la possibilità di attribuire ad una certa categoria di esseri, umani e non, un valore intrinseco.
    Per stabilire se anche agli animali possa essere applicata la teoria dei diritti, il filosofo americano inizia formulando una distinzione tra agenti morali e pazienti morali. I primi, rappresentati dagli esseri umani adulti e normali, sono dotati di razionalità, responsabilità ed autocoscienza e, pertanto, sono in grado di compiere azioni seguendo le proprie scelte etiche. I pazienti morali, invece, non sono in grado di formulare dei principi morali e pertanto non sono nemmeno responsabili dei danni che i loro comportamenti possono provocare.
    All'interno della categoria dei pazienti morali è, inoltre, possibile fare un'ulteriore distinzione tra

    "individui coscienti e senzienti (ovvero capaci di provare piacere e dolore), ma privi di altre capacità mentali, e individui non solo coscienti e senzienti, ma anche dotati delle altre capacità di ordine cognitivo e volitivo". (11)

    Secondo Regan in quest'ultima categoria rientrano, tra i membri del genere umano, i neonati e tutti coloro che presentano delle menomazioni o deficienze mentali e psichiche, che tuttavia abbiano conservato un certo livello di sensibilità e di facoltà cognitive, mentre per quel che riguarda gli altri animali, vi rientrano sicuramente tutti i mammiferi di età superiore ad un anno. E questi pazienti morali, pazienti nel senso che sono destinatari dell'agire morale altrui, devono essere considerati, al pari degli agenti morali, come soggetti-di-una-vita, ovvero in grado di condurre una vita che può essere migliore o peggiore per loro stessi e rendersene conto:

    "gli individui sono soggetti-di-una-vita se hanno credenze e desideri, percezioni, memoria, senso del futuro (anche del proprio futuro), una vita emozionale, nonchè sentimenti di piacere e dolore, interessi-preferenze e interessi-benessere, capacità di dare inizio all'azione in vista della gratificazione dei propri interessi e del conseguimento dei propri obiettivi, identità psico-fisica nel tempo e benessere individuale, nel senso che la loro esperienza di vita è per loro positiva o negativa in termini logicamente indipendenti della loro utilità per altri e dal loro essere oggetto di interesse per chiunque altro". (12)

    Esistono inoltre due tipi di teorie che riguardano il comportamento degli agenti morali nei confronti dei pazienti morali: quelle dei doveri diretti e quelle dei doveri indiretti.

    "Le prime sostengono che almeno alcuni dei nostri doveri nei confronti degli animali sono doveri che abbiamo direttamente verso di loro; le seconde sostengono che tutti i doveri che abbiamo nei confronti degli animali sono doveri verso qualcun altro (ad esempio Dio)". (13)

    Regan ritiene che da un punto di vista etico noi abbiamo dei doveri diretti verso gli animali e che in conseguenza di ciò possiamo identificare un principio morale, definito del danno, che può essere applicato sia agli agenti che ai pazienti morali.

    "Tale principio afferma il dovere diretto prima facie di non danneggiare nessun individuo che in qualche modo possa venire danneggiato, cioè nessun individuo che abbia credenze e desideri, e che sia capace di agire intenzionalmente e di sperimentare benessere". (14)

    Per dimostrare che non abbiamo doveri diretti solo nei confronti degli agenti morali, Regan introduce il concetto di "valore inerente" che costituisce la parte più originale della sua teoria:

    "Coloro che soddisfano il criterio del soggetto-di-una vita possiedono uno specifico tipo di valore- il valore inerente- e non vanno nè considerati nè trattati come meri ricettacoli". (15)

    Nella filosofia kantiana, che rappresenta la versione più classica di etica deontologica, il fondamento per assegnare valore inerente ad un essere è l'autonomia, propria dei soli umani, unici agenti morali. Ma se seguiamo Kant nell'attribuire valore inerente ai soli agenti morali, avremo problemi nel giustificare il nostro rispetto per tutti quei membri appartenenti alla nostra specie che risultano incapaci di agire come agenti morali. E' dunque ragionevole aspettarsi che almeno una della caratteristiche e delle facoltà su cui è fondato il valore inerente si trovino in qualche misura anche nei non umani. E secondo Regan, che intende fornire una versione moderna ed interspecifica di etica deontologica, di un'etica cioè che consideri kantianamente anche gli animali come fini, sono allora possessori di tale valore tutte quelle creature che sono in grado di rendersi conto se stanno meglio o stanno peggio a causa delle azioni altrui. Perciò

    "se postuliamo il valore inerente degli agenti morali e riconosciamo la necessità di attribuirlo in misura uguale a tutti loro, siamo razionalmente tenuti a fare lo stesso nei confronti dei pazienti morali. Pertanto, tutti gli individui che possiedono valore inerente lo possiedono in misura uguale, siano essi agenti o pazienti morali. Per chi intende correttamente le nozioni di animale e di uguaglianza- ossia per chi considera animali tutti gli agenti e i pazienti morali e indichi con il termine uguaglianza l'uguale possesso, da parte loro, di valore inerente- tutti gli animali sono uguali. Quello di valore inerente è quindi un concetto categoriale, qualcosa che o si ha o non si ha". (16)

    Quindi tutti i soggetti-di-una-vita in quanto tali sono dotati di valore inerente, e hanno quindi il diritto basilare ad essere rispettati nella loro natura, nella loro costituzione psico-fisica, il diritto a seguire la vita che la loro natura consente, senza venire ostacolati volontariamente da nessuno.
    Per quel che riguarda tutti quegli umani marginali che sono completamente menomati o pazzi tanto da non avere mai istanti di lucidità e gli animali cosiddetti inferiori, che non soddisfano quelle condizioni minime di consapevolezza e di processi cognitivi per rientrare nella sfera dei soggetti-di-una-vita, Regan sostiene che hanno una qualche "cittadinanza" nella sfera dell'etica, ma che non possono venire considerati come titolari di diritti. Nei loro confronti si devono attuare meccanismi di tutela basati sulla benevolenza e sul dovere generale di non procurare sofferenza; inoltre la crudeltà va sempre scoraggiata in quanto non si può mai tracciare una linea di demarcazione certa tra una categoria e l'altra, e nel caso di dubbio occorre applicare i parametri della categoria superiore.

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    Etica della cura

     L’etica della liberazione animale, ha la pretesa di far parte del più vasto e generale movimento di emancipazione, di progressivo allargamento delle frontiere morali ad altri soggetti. Ma la domanda che sorge spontanea è fino a che punto tale analogia regge, infatti come fa notare Luisella Battaglia l’egualitarismo interspecifico è davvero il postulato più idoneo per estendere i confini della comunità morale fino ai limiti del senziente o esistono altre strategie della ragione in grado di fondare un’etica animalista?”.
    In generale la questione animale viene connessa al possesso di una “natura”, di un valore “inerente” o al riconoscimento di interessi legati alla capacità. La lotta per i diritti, in questo contesto, viene dunque collegata a una rivoluzione futura, in cui gli animali saranno liberati dalla schiavitù umana. Ma non è in verità necessario estendere i diritti ai non umani al fine di sostenere che possiedono un valore intrinseco e meritano protezione, giacché è possibile parlare del rispetto dovuto alle entità viventi a tutti i livelli. Il concetto di rispetto ha il pregio, rispetto a quello di diritto, di portare minori difficoltà concettuali e normative, ed inoltre, per chi non condivide le tesi estreme dell’egualitarismo interspecifico, un discorso che faccia leva sulle responsabilità umane può configurarsi come un’alternativa ragionevole e praticabile. Così, accanto all’etica della liberazione animale ed a quella dei diritti, si sono venuti delineando recentemente approcci meno estremi che si possono ricondurre a talune forme di etica della responsabilità umana o etica della cura.
    Si intende porre il problema del valore delle varie forme di vita organica per arrivare ad una visione globale, che consenta di bilanciare adeguatamente i doveri verso gli uomini, gli animali e la natura. Si attribuisce un’importanza prioritaria alla nozione di responsabilità umana nei confronti degli altri esseri, con un significativo ridimensionamento del rilievo della nozione del diritto, centrale invece, nell’impostazione emancipazionista. E non è rara la critica allo stesso concetto di diritto che viene considerato inapplicabile alla sfera dei non umani in quanto è un concetto propriamente umano, assente fra le altre specie, la cui applicazione non farebbe altro che farci ricadere nell'antropocentrismo tanto osteggiato.
    Questa è ad esempio la posizione di John Passmore, quando dice che

    “una cosa è dire che è sbagliato trattare gli animali con crudeltà, un’altra che gli animali hanno dei diritti. […] L’idea che il concetto di diritto possa applicarsi ad altri che agli esseri umani mi sembra del tutto insostenibile”.
    Secondo Passmore il riconoscimento di regole nei confronti delle altre specie significa che sono gli uomini che hanno perso taluni diritti, non che gli animali ne hanno acquistati, in quanto non possono averne dato che non appartengono alla società umana. Egli riconosce che dal punto di vista ecologico l’uomo costituisce un’unica comunità biotica con le piante, la terra e tutti gli altri esseri viventi, ma solo nel senso del ciclo vitale che coinvolge tutti. Il fattore caratteristico di una comunità è per lui la comunanza di interessi e il riconoscimento di un impegno reciproco tra i suoi membri e “gli uomini ed i batteri non spartiscono gli stessi interessi né tanto meno hanno obblighi reciproci”. Tuttavia sostiene anche la necessità di abbandonare la dottrina per cui l’uomo, nei suoi rapporti con la natura non è soggetto a censura morale, in quanto una responsabilità morale ricade su chiunque distrugga. Solitamente Passmore viene criticato in questi suoi ragionamenti, perchè si richiama a una nozione troppo schematica di comunità trasponendo meccanicamente alla comunità biotica le regole ritenute valide per la comunità umana. Inoltre per sostenere la tesi dell'assenza di comuni interessi fra umani ed altre specie si avvale di un esempio estremo (rapporto uomo/batterio) e quindi poco rappresentativo, considerandolo invece paradigmatico.
    Un’impostazione sostanzialmente riconducibile a un’etica della responsabilità umana è presente anche in Mary Midgley, autrice di numerosi saggi sulle relazioni uomo-animale, come Beasts and Men del 1979 e Animals and Why they Matter del 1983, tradotto in Italia col titolo Perché gli animali. L’autrice parte dalla constatazione che la competizione tra la specie umana e quella animale per l’appropriazione del territorio e delle risorse è ormai finita. L’uomo è divenuto il dominatore quasi assoluto e fornito di mezzi tecnici tali da essere in grado di distruggere tutta la vita animale del pianeta (compresa quella umana). Il che rende doveroso, secondo Mary Midgley, un ripensamento del nostro rapporto con gli animali atto a superare la cosiddetta “esclusione assoluta”, vale a dire l’idea che gli animali non hanno diritto ad alcuna considerazione morale. Tuttavia la Midley sostiene che una certa dose di specismo è comprensibile. Il legame di specie è forte, la preferenza naturale per i propri simili esiste, ma ha un fondamento biologico, non culturale. La Midley cerca di elaborare un percorso intermedio tra la posizione di Singer e Regan, l’egualitarismo interspecifico, e la posizione tradizionale che identifica nella specie umana il confine ultimo di ogni considerazione morale. Esistono dei legami di affinità all’interno delle varie specie che non vanno sottovalutati, ma occorre gettare un ponte tra di esse, anche in considerazione del fatto che tra l’uomo e gli animali sono sempre esistiti, oltre ai rapporti di conflitto, quelli di compenetrazione. La salvezza dell’uomo è legata a quella di tutti gli altri esseri viventi e va vista inserita nella biosfera, nell’ecosistema globale .
    Fra le varie teorie etiche finora analizzate possiamo trovare notevoli differenze. Infatti, mentre nell’etica della liberazione animale e nella teoria dei diritti si compie il tentativo di vanificare la nozione stessa di specie, bollandola come pregiudizio ingiustificabile, l’etica della responsabilità umana recupera tale concetto, opponendosi alla considerazione degli animali come persone ed elaborando una visione dell’uomo come membro della comunità biotica, parte di un più ampio sistema ecologico, tale quindi da sostenerne i doveri. Comune alle tre impostazioni è il rifiuto dell’antropocentrismo assoluto, come modello ideologico inteso a legittimare comportamenti di oppressione e di sfruttamento nei confronti degli animali. Tuttavia essenzialmente diversi sono gli esiti, infatti mentre nei primi due indirizzi, anche se in misura differente, l’antropocentrismo viene respinto come approccio globale che subordina gli interessi animali a quelli umani e li fa divenire mezzi ad uso e consumo di questi, nel terzo indirizzo l’antropocentrismo viene solo corretto, e se ne offre una visione moderna, accettabile, illuminata: l’uomo non è dominatore assoluto della natura, ma suo custode. Emerge in questo modo una differenza cruciale relativa allo statuto stesso degli animali non umani considerati come titolari di diritti (Regan), o portatori di interessi (Singer), o come destinatari di doveri (Passmore e Midgley).
    Luisella Battaglia in Etica e diritti degli animali sottolinea come
    “a ben riflettere, la tesi dell’inapplicabilità dei diritti ai non umani acquista plausibilità ove si assuma il termine diritto in senso rigorosamente tecnico; la stessa tesi, tuttavia, risulta assai meno sostenibile ove si impieghi il termine nel senso generico del linguaggio quotidiano, estrapolandolo dal suo originario contesto di significato: in tal caso, essa rischia facilmente di convertirsi nella tolleranza di ogni tipo di trattamento. Non avere diritti, per gli animali, significa allora non godere in pratica di alcuna tutela giuridica efficace ed essere quindi soggetti a una oppressione quasi illimitata” e poco più avanti aggiunge che “la tematica dei diritti degli animali si colloca in quella tradizione di pensiero che ha inteso allargare l’ambito della considerazione morale ad altri soggetti, in senso umanistico e umanitario. […] Siamo noi a riconoscere dei diritti i quali non esistono in natura (la debolezza dell’argomentazione di Regan sta nel fare dei diritti una categoria astratta, metastorica, se non metafisica), ma emergono da un faticoso travaglio sociale e culturale, come una proiezione della nostra rinnovata concezione umanistica” .

    Luisella Battaglia si domanda se però sia realmente inevitabile l’alternativa tra l’animale umanizzato (ovvero elevato a persona come in Singer e Regan) o deificato (retrocesso a mero oggetto). Pare infatti che finora l’unica strada tentata per sottrarre l’animale allo stato di oggetto sia stata quella di renderlo simile all’uomo e quindi di antropomorfizzarlo. Il quesito fondamentale con cui confrontarsi sarà allora quello di comprendere se sia veramente necessario essere simili all’uomo per meritare rispetto. Forse si dovrebbe invece ripensare il concetto stesso di animalità, visto tradizionalmente in modo negativo, e recuperarne la specifità. Così come dice Luisella Battaglia che ritiene che
    “lo sforzo, e la sfida, di una nuova etica interspecifica debba essere quello di superare l’umano come paradigma unico. Si tratta di considerare l’animale come prossimo senza farne un homunculus […] Occorre invece rivendicare e difendere la sua diversità, per esigerne il rispetto. A ben riflettere, rispettare qualcuno solo nella misura in cui è simile a noi è una concezione ben misera di rispetto. Quello dovuto ai non umani dovrebbe pertanto fondarsi su una filosofia della diversità che riconosca il valore e garantisca i diritti dei non umani in quanto tali e non in quanto umanizzati, o aspiranti all’umanità” .

    Nel saggio Alle origini dell’etica ambientale, Luisella Battaglia si chiede inoltre se la civiltà umana sia strutturalmente basata sul modello del dominio o se sia invece possibile stabilire un rapporto con l’ambiente che sfugga ai tradizionali schemi di sfruttamento e riconosca tutto il mondo vivente come soggetto morale degno di considerazione e di un’assunzione di responsabilità da parte dell’umanità.
    La nuova interrogazione sul rapporto fra uomo e natura, che comporta un riesame delle gerarchie tradizi
    onali degli enti, presuppone, secondo l’autrice, da un lato un’antropologia rinnovata, dall’altro una più matura coscienza del sistema d’interazione uomo/mondo. La natura entrata nella cerchia delle responsabilità umane diviene, quindi, l'aspetto nuovo su cui riflettere nell’ambito dell’etica, mentre deve essere riconsiderato il modo di atteggiarsi rispetto alla tradizione umanistica, che è considerata generalmente estranea al rispetto della natura e che, per questo motivo, viene spesso rifiutata dalla cultura ambientalista. Secondo la studiosa, le tesi della saldatura e della complicità tra umanesimo antropocentrico e assoggettamento del mondo vivente è ormai diventata una sorta di luogo comune che alimenta le concezioni antiumanistiche dell’ecologismo fondamentalista e rischia di negare sia la complessità della tradizione umanistica sia le stesse potenzialità del pensiero ecologico. Questo luogo comune, a parere di Luisella Battaglia, è nato principalmente a causa di un doppio equivoco, che identifica l’umanesimo con un antropocentrismo forte e l’ecologismo con un fondamentalismo biocentrico. Da qui nascono l’idea di un umanesimo ineluttabilmente antiecologico, convinto della necessità di difendere l’uomo e i suoi valori dalla sacralizzazione della natura, e quella di un ecologismo necessariamente antiumanistico, persuaso che per difendere la natura sia necessario mettere sotto accusa tutta la tradizione culturale e filosofica occidentale. Questi due modelli sono dunque opposti, ma essenzialmente accomunati da un paradigma di appiattimento che impedisce di concepire la complessità della relazione che intercorre tra uomo e natura, mentre, in verità, è importante promuovere una visione in cui l’integrità umana e l’integrità naturale si richiamino reciprocamente per determinare in quale modo l’uomo, sulla base di una scelta di valore che sarà sempre e solo umana, debba assumersi le responsabilità verso il resto del mondo. La via indicata è quella di una cultura del rispetto, nutrita della consapevolezza che oggi non si tratta tanto di dominare la natura, quanto di limitare il dominio sulla natura. Le nostre responsabilità nascono dal nostro potere sull’ecosistema, reso sempre più forte da ogni progresso della tecnica e della scienza, per cui sta a noi tenere presenti tutte le conseguenze volute e possibili del nostro agire, preoccupandoci degli effetti a lungo termine delle operazioni umane sul sistema planetario, sulle generazioni future, sulle altre creature. Quindi il centro attorno a cui gravita l’etica sembra essere un discorso dell’uomo, ma non più necessariamente sull’uomo.
    Inoltre l’identificazione tra umanesimo e antropocentrismo risulta alquanto problematica, infatti, prima di tutto sarebbe opportuno, secondo l’autrice, distinguere due modelli di umanesimo che possono essere definiti uno antropocentrico, l’altro naturalistico. Il primo appare caratterizzato da un’antropologia ispirata ad una visione in cui l’antitesi uomo/animale è un punto fermo richiamato con costanza dall’antichità all’età moderna. Sul piano etico-politico, il risultato che ne consegue è un modello di dominio che esclude gli animali da ogni considerazione morale e li relega, in quanto privi di ragione o di anima, nella sfera di strumenti al servizio dell’uomo. L’umanesimo naturalistico invece si richiama ad un’antropologia che, anziché isolare l’uomo dal resto delle creature, sostiene una concezione in cui il cosmo è visto come un’unità indissolubile, di cui l’uomo è parte integrante e che genera, dal punto di vista etico-politico, un modello che si rifà ad una visione di comunità allargata oltre i confini della specie. Gli antecedenti di tale concezione sono rivenibili nel filone della filosofia platonico-pitagorica che teorizza e argomenta razionalmente il tema del rispetto per gli animali. A questo filone del pensiero greco si riallacciano anche quei pensatori rinascimentali che introducono nella speculazione occidentale una visione del cosmo in cui la Terra cessa di essere al centro dell’universo e l’umanità perde il suo posto privilegiato.
    Proprio con questo secondo umanesimo, di impronta naturalistica, il pensiero ecologico può e deve dialogare se vuole cercare di dare una risposta alle due sfide che gli si pongono innanzi, radicare l’uomo nel mondo naturale e nello stesso tempo tener presente l’estrema complessità che lo distingue da ogni altro fenomeno naturale. Si tratta di un doppio movimento, destinato a reintegrare l’uomo tra gli esseri naturali, ma senza ridurlo ad essi o ridurre essi a lui.
    A questo proposito si rivela molto interessante la rilettura intrapresa da Luisella Battaglia di autori come Voltaire, Michelet, Thoreau e Gandhi, che possono aiutarci a creare un filo conduttore con il nuovo umanesimo. Voci diverse, ma concordi nel porre i problemi relativi alla libertà, alla giustizia, alla dignità umana in un contesto dove venga preso in considerazione anche il rispetto per la natura e i viventi e nel pensare alle potenzialità etiche, culturali, sociali di un umanesimo disposto a riconoscere le proprie radici terrestri e il destino planetario dell’uomo. Nella loro opera, l’umanesimo naturalistico trova il suo compimento e insieme mostra le sue potenzialità creative.
    Con Voltaire comincia la critica ad un umanesimo chiuso, nato dall’unione fra cristianesimo e “cartesianesimo”, che divide e gerarchizza l’insieme delle creature, mentre si auspica un umanesimo aperto, ispirato all’idea della tolleranza, che sia in grado di ritrovare le ragioni non solo di una solidarietà umana, ma di una più ampia solidarietà che arrivi anche ai non umani. Gli animali, che erano stati degradati a macchine, tornano così ad essere parenti dell’uomo, insieme simili e diversi da noi. La riabilitazione etica della natura, intrapresa da Voltaire, diventa un proposito evidente nell’opera di Michelet che estende l’idea di popolo oltre i confini della nostra specie, per realizzare quell’idea di giustizia che lo induce a rispondere al muto appello dei “piccoli della creazione”, cosicché il sentimento dell’armonia cosmica, metaforizzata dalla “grande città universale”, diviene affermazione della solidarietà tra le creature.
    Ma è con Thoreau che sembra preannunciarsi l’arrivo dell’ecologia. Con la sua opera si viene introducendo un vero e proprio mutamento di paradigmi nel rapporto uomo/natura, contrassegnato dal passaggio dall’etica puritana della frontiera ad un’etica del rispetto impegnata a ricomporre la scissione tra l’umano e il naturale. Particolarmente rilevante nell’impostazione di Thoreau è quella che può essere chiamata ecologia della libertà, ovvero la congiunzione che egli pone tra individualismo libertario e coscienza ecologica. Con Gandhi, infine, le idee espresse dall’umanesimo naturalistico, quali ad esempio l’esigenza di un allargamento dei valori di giustizia a tutti i viventi e la visione dell’uomo non più padrone, ma custode del creato, si inquadrano in una visione etica del tutto interspecifica. Sembra quindi che il superamento della prospettiva antropocentrica sia compiuto, gli animali non umani, in quanto esseri viventi capaci di provare il dolore causato dalla violenza, vengono inclusi nella nozione di prossimo.
    Dunque l’etica gandhiana rientra nel campo di quella che può essere chiamata etica della “cura”, dove trova espressione il riconoscimento del nostro dovere di proteggere le altre creature senza attenderci reciprocità. La responsabilità umana è attivata proprio dalla constatazione della debolezza e della disuguaglianza, da quelle differenze che anziché fondare la discriminazione offrono ragioni alla “cura” e rinforzano, anziché ostacolare, il riconoscimento di una “vicinanza” fra noi e gli altri esseri. Quanto più un soggetto è forte e dotato di quei requisiti che lo rendono capace di pensare e agire come agente morale, tanto più grandi dovranno essere il suo impegno e la sua sollecitudine verso quei soggetti che non sono in grado o non hanno la possibilità di avanzare diritti e pretese. Anche per questo il paradigma etico della cura appare, secondo l’autrice, particolarmente adatto a regolare le nostre relazioni con il mondo non umano e rappresenta un contributo molto significativo del pensiero gandhiano al dibattito storico e culturale degli ultimi decenni in tema di rispetto delle specie.
    Sia Voltaire che Michelet, sia Thoreau che Gandhi non negano mai la differenza fra uomo e animale, né la considerano come irrilevante (così come fa l’ecologismo fondamentalista), o discriminante (come accade nell’antropocentrismo), ma piuttosto la valorizzano, all’interno di una dialettica fra somiglianze e diversità che intende istituire la responsabilità umana.
    Attraverso l’opera di questi quattro filosofi è dunque possibile riscoprire oggi le possibilità ancora inesplorate offerte dall’umanesimo, dato che proprio al suo interno si sono sviluppate controcorrenti che hanno aperto brecce nel paradigma chiuso dell’antropocentrismo e in quel pensiero dualistico su cui si reggeva il mito di un uomo extra-naturale. Sembra dunque utile ricollegarsi a queste controcorrenti per tratteggiare gli elementi di un umanesimo di un nuovo tipo, un umanesimo ecologico, in grado di integrare i principi dell’etica umana con i nuovi doveri verso la natura e le altre specie. La critica dell’antropocentrismo e il sorgere di una superiore coscienza etica non si collocano né in una prospettiva riduzionistica (in cui l’uomo è appiattito sull’animale) né in una prospettiva naturalistica (in cui la natura è riconosciuta come la fonte di ogni normatività), ma trovano le trovano le proprie radici nel proprio nella tradizione umanistica, nell’idea di una trascendenza rinnovata che implica sì una centralità dell’uomo, ma piena di responsabilità e cura verso la natura e le altre creature.

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